Dopo i primi commenti dei deputati del Pd sembrava che il decreto legge di riforma del credito cooperativo potesse essere migliorato, ed invece, sicuramente a causa della lettera inviata al governo dai 20 senatori del partito di maggioranza, stando agli emendamenti e alle modifiche introdotte nel corso dell’esame in sede referente che hanno stravolto il decreto legge n. 18/2016, Renzi e Padoan escono sconfitti, ma probabilmente restano al loro posto, mentre Federcasse e Bankitalia appaiono come i vincitori in grado di riportare la riforma alla struttura inizialmente proposta.
In una riforma il cui testo che sarà presentato all’Aula di Montecitorio non conserva né i principi mutualistici e cooperativi né quelli di solidarietà e autonomia nel rapporto con i territori, l’intero Credito Cooperativo risulta sconfitto. Tuttavia, chi sconterà maggiormente le modifiche apportate in sede referente, saranno le BCC di piccola e media dimensione che hanno sempre operato correttamente ed onestamente a vantaggio dei propri territori, nonché dei propri soci, clienti e dipendenti.
Come si fa a parlare di mutualismo, cooperazione e solidarietà quando, per una cooperativa bancaria, si impone l’obbligo di essere assoggettata a direzione e coordinamento di una società per azioni avente un patrimonio minimo di un miliardo di Euro e ad una sub-holding, sempre società per azioni, probabilmente governate da coloro che hanno avuto come unico scopo quello di assicurarsi il proprio potere?
Certo è che, se a dirigere le holding e le subholding fossero state chiamate persone tipo Draghi, Passera, Messina, ecc., non sarebbe stato ugualmente mantenuto il principio mutualistico e cooperativistico ma, con ogni probabilità, si sarebbero forse risolti i veri problemi del Credito Cooperativo: governance, efficienza ed innovazione. E invece, come da più parti si è già sottolineato, posizioni apicali e responsabilità importanti in tema di direzione e coordinamento che saranno svolte dalla capogruppo permarranno in capo a chi ha mostrato non ineccepibili capacità gestorie delle BCC che rappresentano e, soprattutto, in capo a chi è stato destinatario di provvedimenti sanzionatori da parte della Banca di Italia.
In un Paese normale ciò non succederebbe, in Italia invece è la regola.
Un mostro giuridico
Da un punto di vista tecnico-giuridico, il DL n. 18/2016 approvato dal Consiglio dei Ministri, seppur fortemente criticabile sotto diversi aspetti, in particolare per il venir meno del principio di indivisibilità delle riserve e per l’arbitrarietà della soglia minima dei 200 milioni di patrimonio netto prevista per la way out, e sebbene prevedesse una soglia di patrimonio alquanto elevata per la costituzione della capogruppo (un miliardo di euro), era riuscito quanto meno a rispettare i principi di libera iniziativa economica sanciti dall’art. 41 della Carta Costituzionale ed a mitigare i rischi di incostituzionalità di cui all’art. 45, rischi che risultano invece accentuati nel progetto di riforma proposto da Federcasse in condivisione con Bankitalia.
Renzi e Padoan, nonostante avessero messo in discussione il principio della indivisibilità delle riserve attraverso il pagamento di un’imposta straordinaria comunque elevata per l’affrancamento delle riserve, concedendo 18 mesi di tempo alle BCC per decidere se entrare nel gruppo unico o trasformarsi in società per azioni (anche aggregandosi con altre), obbligavano, di fatto, le candidate capogruppo ad essere “appetibili” e a produrre un piano industriale serio, efficiente e nell’esclusivo interesse delle BCC e del Paese.
Le modifiche apportate dalla commissione in sede referente, invece, oltre ad aver realizzato un “obbrobrio giuridico” che calpesta gli articoli 41 e 45 della Carta Costituzionale, obbliga tutte le BCC a decidere, in appena 60 giorni dalla conversione in legge del DL, sull’eventuale esercizio della way out senza conoscere:
- a) chi sarà la capogruppo o le capogruppo,
- b) gli statuti, i piani industriali e la governance di queste e
- c) il contenuto minimo del contratto di coesione, la cui redazione è ora demandata alla Banca d’Italia.
A parte quelle BCC per le quali la way out era stata pensata e introdotta appositamente nel DL (si tratta di alcune BCC con un patrimonio superiore a 200 milioni di euro e che hanno avuto la fortuna di avere i “giusti” appoggi politici), tutte le altre 350, di fatto, non hanno più alcuna possibilità di scelta dal momento che, entro 60 giorni dalla conversione in legge del decreto, dovrebbero chiedere all’organo di vigilanza di poter conferire l’intera azienda bancaria in una società per azioni nella quale conferisce anche la BCC con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro, la quale, evidentemente, ha già deciso di non aderire alla (ignota) capogruppo e che, conseguentemente, si assicurerà la maggioranza dei voti della nuova s.p.a. bancaria, anche dopo il conferimento della piccola BCC.
In altri termini, mentre per la costituzione della capogruppo si concedono 18 mesi di tempo dall’entrata in vigore delle norme attuative del MEF, a tutte le BCC che al 31 dicembre 2015 non possiedono un patrimonio netto di almeno 200 milioni di euro, a prescindere dalla propria solidità patrimoniale, viene chiesto di scegliere, probabilmente senza nemmeno avere il tempo di consultare i proprietari, ossia i propri soci, tra morire nella sconosciuta capogruppo società per azioni (probabilmente governata dai “soliti noti” che spesso hanno anche male amministrato le proprie BCC) o scomparire all’interno di una nuova società per azioni governata da una BCC con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro della quale nulla viene richiesto in termini di solidità patrimoniale e/o di efficienza e trasparenza.
E’ evidente, dunque, che la way out appare più larga solo per quelle BCC con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro che sperano di assorbire quelle piccole e virtuose che intenderanno accodarsi. Quella che risulta attualmente, più che una possibilità di uscita dalla capogruppo società per azioni sembra un obbligo ad aderire ad una sconosciuta capogruppo, tanto più se si considera che occorrerà pagare addirittura un’imposta (più correttamente una tassa) pari al 20% del patrimonio netto della quale nessuno riuscirà mai a fornire una giustificazione logico-giuridica, dal momento che le riserve indivisibili non verrebbero affrancate e, anzi, resterebbero in capo alla conferente BCC che cambierebbe il proprio oggetto sociale e, soprattutto, se si considera che tale operazione è già stata effettuata in passato da diverse cooperative, sia rosse che bianche, è che mai nessuna ha dovuto scontare alcuna tassazione.
E’ evidente, inoltre, che con queste modifiche emendative, che hanno reintrodotto le proposte di Federcasse non accolte dal governo, si intende favorire l’autocandidatura di ICCREA Holding S.p.A. proclamata a Roma il 4 marzo scorso in occasione dell’assemblea straordinaria dei soci, ossia la candidatura della società costituita per razionalizzare la fornitura di servizi alle BCC e spesso criticata proprio per l’inefficienza di alcune sue società, oltre che per la scarsa trasparenza adottata nella gestione.
Le reali finalità della riforma
Che a nessuno interessasse la risoluzione dei problemi che affliggono il credito cooperativo si era ben compreso con le audizioni intervenute alla Camera, così come erano già note le reali finalità di una riforma impropriamente definita autoriforma, dal momento che, contrariamente a quanto sbandierato dai rappresentanti di Federcasse, l’articolato e dettagliato quadro normativo dagli stessi proposto al governo lo scorso mese di ottobre non è mai stato condiviso con le BCC, quanto meno con quelle marchigiane, stando a quanto emerso nel corso dell’ultima assemblea della federazione marchigiana appositamente convocata l’11 marzo scorso per discutere, a tempo oramai scaduto, proprio della riforma.
L’ulteriore prova della deliberata eterogenesi dei fini è rappresentata dall’introduzione della particolare norma, giustamente non accolta dal governo, che anticipa gli effetti della costituzione della capogruppo attraverso la creazione di un fondo temporaneo promosso (guarda caso) da Federcasse e che amplifica ulteriormente i vizi di legittimità di una riforma che rischia di distruggere un sistema che opera da oltre 130 anni e che raggruppa 1.230.000 soci. Viene, infatti, introdotto in sede referente l’articolo 2-bis, intitolato Fondo temporaneo delle banche di credito cooperativo, che dovrebbe “coadiuvare il processo di adeguamento alle riforme” introdotte con la conversione in legge; così si esprime lo stesso documento Dossier predisposto per l’esame in Assemblea e dal quale sembrerebbe doversi desumere l’obbligo di adesione per tutte le BCC che non esercitano la way out al buio.
In altri termini, sembrerebbe, ma il condizionale è d’obbligo perché la norma sembra scritta appositamente per non far comprendere il lettore (tanto per restare in tema di trasparenza bancaria), che, nella fase transitoria, in vista della costituzione della o delle capogruppo, Federcasse possa gestire un fondo temporaneo al quale le BCC dovrebbero obbligatoriamente aderire, e dunque contribuire in termini economici e finanziari, per realizzare le finalità che successivamente si raggiungerebbero con l’appartenenza ad una capogruppo: sostenere le BCC in difficoltà e favorire processi di consolidamento e concentrazione delle BCC (processi, questi ultimi, che con la nuova way out vengono invece scoraggiati).
Infine, si prevede che l’adesione al Fondo avviene entro 30 giorni dalla data di approvazione del relativo statuto. Da di chi debba essere approvato lo statuto non è chiarito dalle norme che saranno sottoposte all’Aula di Montecitorio ma, considerato il modo in cui Federcasse ha gestito l’intero processo di riforma, non sorprenderebbe se fossero gli stessi vertici dell’Associazione Nazionale del Credito Cooperativo (Federcasse) ad approvarlo.
Semplicemente combinando le modifiche apportate alla way out con quelle relative alla costituzione e gestione del fondo temporaneo, anche senza analizzare le altre modifiche introdotte in sede refente e originariamente stralciate dal governo, appare fin troppo logico ed evidente concludere che lo scopo della riforma sembrerebbe quello di imbrigliare le BCC piccole e virtuose, che sono la stragrande maggioranza, mantenendo il potere in mano a coloro che siedono ai vertici della cooperazione da oltre 30 anni (e che spesso hanno mal gestito le loro banche). Le altre modifiche introdotte in sede referente.
Ad ulteriore conferma di quanto sopra e a testimonianza della grande capacità persuasiva espressa da Federcasse e Bankitalia nei confronti della maggioranza parlamentare, è sufficiente ripercorrere velocemente le altre modifiche emendative introdotte nel DL e che, probabilmente, consentiranno la conversione in legge in tempi rapidi. Ecco le principali novità approvate in sede referente e portate all’attenzione del parlamento:
- Forse per paura che le federazioni sarebbero state accantonate e dismesse dopo la costituzione della capogruppo, è stata inserita la possibilità, in precedenza stralciata dal governo, di costituire eventuali sottogruppi territoriali, facenti capo a una banca costituita (sempre) in forma di società per azioni sottoposta a direzione e coordinamento della capogruppo, e composti dalle altre società (BCC, società bancarie, finanziarie e strumentali controllate dalla capogruppo);
- Per consentire alle sole Raiffeisen, e non anche alle Casse Rurali Trentine che operano anche in Veneto, di costituire un gruppo apposito, è stata introdotta la possibilità per le banche di credito cooperativo aventi sede legale nelle province autonome di Trento e Bolzano di costituire autonomi gruppi bancari cooperativi composti solo da banche aventi sede e operanti esclusivamente nella medesima provincia autonoma, tra cui la corrispondente banca capogruppo, che potrà adottare la forma di società per azioni o di società cooperativa a responsabilità limitata ed il cui requisito minimo di patrimonio netto sarà stabilito dalla Banca d’Italia. Evidentemente la provincia di Bolzano, essendo più vicina a Bruxelles, può godere di maggiori benefici, in particolare quello della libertà;
- La facoltà della capogruppo di nominare, opporsi alla nomina o revocare uno o più componenti, fino a concorrenza della maggioranza, degli organi di amministrazione e controllo delle società aderenti al gruppo non è più prevista, come nell’originaria formulazione governativa, in casi eccezionali e motivati, ma diventa un’ordinaria facoltà della capogruppo che dovrà semplicemente motivare l’esercizio di tale potere. Anche questa modifica mal si concilia con i principi di cooperazione e mutualismo e, soprattutto, con l’autonomia nel rapporto con i territori;
- Viene inserita la possibilità per la BCC di recedere dal gruppo; tale diritto di recesso non è invece contemplato per i soci delle BCC che non dovessero deliberare le modifiche dei propri statuti in adeguamento all’assoggettamento a direzione e coordinamento della capogruppo. Oltre alla Provincia di Bolzano che potrà costituire un apposito gruppo, qualora nel resto d’Italia non si riuscisse a costituire almeno due gruppi l’unica alternativa, in caso di recesso, di fatto, resterebbe la liquidazione della BCC;
- Assegnato alla Banca d’Italia il compito di dettare disposizioni relative ai requisiti minimi organizzativi ed operativi della capogruppo, al contenuto minimo del contratto di coesione, alle caratteristiche della garanzia in solido delle obbligazioni assunte dalla capogruppo e dalle altre banche aderenti, al procedimento per la costituzione del gruppo e all’adesione al medesimo, oltre ai requisiti per la costituzione della capogruppo delle Raiffeisen.
In sede referente la maggioranza, preoccupata esclusivamente di recepire le integrazioni richieste da Federcasse e Bankitalia, non ha, ovviamente, pensato ai rischi di legittimità costituzionale o a modifiche che prevedessero l’introduzione di banali concetti di meritocrazia per la governance della capogruppo. Nemmeno la minoranza è sembrata interessata a discutere di meritocrazia. Tuttavia, di tutti gli atti parlamentari rinvenibili sul sito della Camera dei Deputati, bisogna riconoscere che l’unico ad aver centrato i rischi ed i vizi della riforma che sarà discussa questa settimana in parlamento è quello del relatore di minoranza Angelo Busin, il quale ha predisposto un’interessante relazione che, probabilmente, non sarà nemmeno presa in considerazione.
Le ultime flebili speranze
Come si suole dire non tutte le ciambelle riescono col buco. Ed allora ecco che, nella giungla giuridica di un complesso e farraginoso articolato normativo che non riforma le strutture che dovrebbero essere rifondate, appare uno spiraglio nella norma con la quale si impone che la maggioranza del capitale della capogruppo deve essere detenuto dalle BCC. Tale spiraglio sembra uscito indenne dai numerosi emendamenti apportati dalla commissione in sede referente, tanto che, al momento, nemmeno la richiesta di Bankitalia, con la quale si prevedeva la possibilità per le autorità (MEF su proposta della Banca d’Italia) di autorizzare, per ragioni di stabilità, le BCC a scendere sotto la soglia della maggioranza del capitale della capogruppo nei casi di rilevanza tale da mettere a rischio la stabilità del gruppo o di sue componenti rilevanti, sembra essere stata accolta.
Inoltre, l’auspicio è che nel credito cooperativo possano trovare accoglienza i principi contenuti nel progetto industriale che Cassa Centrale Banca ha presentato lo scorso luglio alla borsa valori di Milano e per il quale ha riscosso notevole successo durante il meeting di Bologna.
Soprattutto, preso atto della impossibilità di abbassare la soglia minima di patrimonio netto richiesta per la costituzione della capogruppo società per azioni, la speranza delle tante BCC serie ed oneste e disposte a sacrificarsi per le consorelle in difficoltà a condizione che vengano salvaguardati i principi di meritocrazia, mutualismo e autonomia nel rapporto con i territori, risiede nella forza e nel coraggio che il board di Cassa Centrale Banca dovrà dimostrare nelle prossime settimane nel tentativo di imporre il proprio progetto industriale di capogruppo. Progetto che, al momento, resta ancora l’unico ad essere stato mostrato alle BCC e a potersi vantare di innovatività, efficacia, serietà e trasparenza, e che presuppone, come dichiarato dal presidente di Cassa Centrale Banca, Giorgio Fracalossi, anche la riforma dei soggetti esistenti, in particolare ICCREA Holding SpA e, soprattutto, Federcasse.
Cosa ha deciso la BCC di Civitanova Marche e Montecosaro
In attesa della imminente conversione in legge del DL emendato (in peggio) e nella speranza che Cassa Centrale Banca riesca a soccorrere l’intero sistema del credito cooperativo, il consiglio di amministrazione della BCC di Civitanova Marche e Montecosaro, oltre a restare in contatto con numerose BCC operanti nelle più svariate zone d’Italia, a tutela e a salvaguardia dei diritti dei propri soci, clienti e dipendenti e del proprio territorio, ha deliberato il conferimento dell’incarico professionale a favore dell’avv. Gerardo Pizzirusso del foro di Macerata affinché siano accertate eventuali responsabilità nel processo di riforma del credito cooperativo, portato avanti da circa un anno da Federcasse con l’ausilio delle federazioni regionali, e siano valutate eventuali azioni tese a risarcire il danno subito o che potrà subire la BCC a seguito della conversione in legge del decreto.