Banche Centrali: In movimento… o forse no?
I primi tre mesi del 2016 sono stati congestionati tanto dall’attività quanto dall’inattività delle banche centrali. In effetti, le politiche delle banche centrali sono ormai diventate la principale notizia economica di questo periodo, superando sia il rallentamento della crescita cinese che il crollo dei prezzi del petrolio.
La Banca del Giappone (BOJ) è stata la prima banca ad avviare questo percorso con l’entrata dei tassi di interesse in territorio negativo in occasione dell’incontro del 29 gennaio, tagliando i tassi sui depositi  bancari a -0,1%. Lo scorso 10 marzo, la Banca centrale europea (BCE) ha poi fatto piazza pulita abbassando tutti i tassi, aumentando il il programma QE di 20 miliardi di euro al mese e includendo le obbligazioni corporate investment-grade nel programma d’acquisto di titoli.
Al contrario, la Banca d’Inghilterra (BoE) e la Fed statunitense sono rimaste ferme, e quest’ultima ha abbassato le aspettative riducendo il precedente “dot plot” da quattro a due rialzi dei tassi nel 2016. Cosa dovrebbero trarre gli investitori da tutte queste manovre monetarie incomprensibili?
Prescrizione o Problema?
Da un lato, una politica monetaria super-accomodante è positiva, non è vero? Bassi tassi di interesse e un’abbondante liquidità bancaria dovrebbero favorire la creazione del credito – la linfa vitale della crescita economica, secondo quanto ci dicono i libri di testo. Quindi non preoccupatevi, state sereni.
Dall’altro lato, gli osservatori più cinici potrebbero concludere che le banche centrali siano costrette a mantenere condizioni monetarie iper-accomodanti perché la crescita globale è in fase di stagnazione e vi è la probabilità che la deflazione metta radici. In altre parole, siamo in presenza di qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Se è necessario continuare ad aggiungere liquore al recipiente del punch, allora significa che forse la festa non è poi un gran che.
L’entrata dei tassi in territorio negativo, avviata dalle banche nazionali danesi e svizzere e più recentemente dalla BoJ e dalla BCE, costituisce un nuovo e pericoloso sviluppo della politica monetaria.
La teoria sembra essere quella che, se i tassi bassi sono una buona cosa, i tassi negativi devono necessariamente essere un’ottima cosa. Ma tale teoria rischia di peccare di semplicismo. Ai tassi negativi si accompagnano potenziali risvolti inaspettati o, potremmo dire, “effetti collaterali”. Se i tassi sono negativi, chi presta denaro deve pagare interessi, non riceverli. E’ ovvio che ciò possa comportare alcune strane conseguenze. Si otterrà l’effetto desiderato anche se le banche  non riusciranno completamente a trasferire il costo sui depositanti? Il restringimento dei margini di interesse indurrà le banche a ridurre i prestiti oppure, contrariamente al buon senso, ad aumentare i tassi di interesse sui prestiti per proteggere i margini, quindi ostacolando anziché favorendo la creazione del credito?
Sebbene i mutuatari non ricevano effettivamente interessi (escludendo la banca centrale), i tassi sempre più bassi aumentano la leva finanziaria e il rischio di una cattiva allocazione degli asset?
Infine – e questo potrebbe essere il problema fondamentale – quali effetti potrebbe avere l’attuale sperimentazione coi tassi di interesse negativi sulla fiducia delle imprese e dei consumatori? Non occorre avere una laurea in teoria bancaria avanzata per sapere che il programma di quantitative easing (“stampare moneta”) e i tassi di interesse negativi non suonano bene.
Il nocciolo del problema nell’attuale contesto economico globale è la carenza di domanda aggregata. Lo sperimentare delle banche centrali fa forse riflettere i consumatori che potrebbero aver timore di compiere acquisti importanti oppure gli amministratori delegati che potrebbero desistere dall’effettuare investimenti di capitale? I tassi negativi potrebbero davvero rappresentare la linea di demarcazione in cui il denaro passa dall’essere “prescrizione” ad essere un “problema”.
I tassi negativi spingono gli investitori verso maggiori rischi?
A parte le questioni politiche, i tassi di interesse negativi comportano implicazioni reali sul portafoglio degli investitori, aggravando la ricerca disperata di rendimenti sul mercato obbligazionario che è ormai in corso da qualche tempo. Prima della grande crisi del 2007-09, diverse obbligazioni sovrane di alta qualità offrivano rendimenti del 4-7% agli investitori a livello globale. In sostanza, le obbligazioni di alta qualità offrivano la giusta combinazione tra equilibrio di portafoglio (ossia bassa correlazione – potenziale di guadagno nel caso di caduta dei titoli azionari) e rendimenti decenti a una cifra. Oggi tali opportunità sono praticamente svanite.
Con la discesa dei tassi, la scelta tra sicurezza e rendimento non è mai stata così pronunciata. Prima della crisi, il 7-8% degli obiettivi di rendimento degli investitori (similmente alle aspettative di rendimento pensionistico di lungo termine) poteva essere soddisfatto tramite un mix modesto di azioni e obbligazioni di alta qualità . L’attuale contesto dei tassi costringe gli investitori ad abbassare significativamente le proprie aspettative di rendimento oppure ad aumentare notevolmente i propri investimenti azionari (e, per definizione, la propria esposizione alla volatilità ).
Un’altra opzione per gli investitori consiste nell’adottare un approccio più aggressivo nell’ambito dei propri investimenti obbligazionari. Agli attuali livelli di spread, continuiamo a ritenere che i settori corporate del mercato obbligazionario (ad es. obbligazioni investment-grade, ad alto rendimento, convertibili, prestiti bancari) abbiano un buon valore.
Tuttavia, gli investitori dovrebbero comprendere che anche questi strumenti aumentano il rischio di portafoglio, poiché tali settori presentano sia maggiore volatilità , sia maggiore correlazione con gli investimenti azionari. Indipendentemente dal fatto che tali rendimenti potenzialmente superiori traggano origine dall’interno o dall’esterno del mercato obbligazionario, è bene che gli investitori prestino attenzione a non farsi trascinare dalle banche centrali verso allocation di portafoglio che siano al di là della propria tolleranza al rischio.
Pochi cenni sul recente rimbalzo di mercato
Pressoché in coincidenza col crollo dei prezzi del petrolio intorno all’11 febbraio, abbiamo assistito all’incredibile rally di azioni globali e di obbligazioni sensibili al merito di credito. A far data 18 marzo, l’MSCI World Index è schizzato al 12%, quasi eliminando la perdita dall’inizio dell’anno fino all’11/2 (unicamente in termini di rendimento in funzione del prezzo di emissione). Come interpretare tale aumento degli asset rischiosi?
Non dandogli troppo peso, a nostro avviso. Nonostante questi volteggi di mercato, pochi asset driver fondamentali sono cambiati sensibilmente dalla fine dell’anno scorso. Il mondo resta impantanato in un contesto di bassa crescita/bassa inflazione mentre le banche centrali – nonostante il potenziale inasprimento della Fed – restano assurdamente accomodanti e i prezzi azionari su ampia base sono “OK” – non essendo né significativamente alti né bassi. Il sell-off di metà febbraio ha portato a valutazioni più interessanti, con il rapporto P/E dell’MSCI World sceso da 17x a 15x.
Il successivo rally ha semplicemente riportato i prezzi vicino ai valori pre-sell-off. Molto semplicemente, riteniamo che il sell-off e la paura di una recessione economica che lo ha provocato, siano stati eccessivi. Il rimbalzo costituisce semplicemente una “seconda chance”.
Pertanto, il nostro outlook sulle azioni rimane generalmente invariato nonostante la volatilità . E’ probabile che nei prossimi mesi i rendimenti restino positivi seppur modesti, trascinati da una lieve crescita di utili e dividendi.
Il rimbalzo delle obbligazioni ad alto rendimento è stato ugualmente significativo, ma i livelli di spread nell’ambito di tale asset class restano interessanti rispetto alle medie di lungo periodo, perfino alla luce di maggiori aspettative di default e del loro effetto sul sub-settore energetico.