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D’AMATO: GATTOPARDO O RIVOLUZIONE?

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Un atto gattopardesco o una vera rivoluzione? Mai come questa volta la nomina del presidente della Confindustria lascia aperti diversi possibili scenari e apre numerosi interrogativi.

A favore 96 voti, contrari 58. Un astenuto. La scarna cronaca algebrica dice e non dice: dice che Antonio D’Amato, imprenditore del sud ramificato in tutta Italia e anche all’estero, 43 anni, ha schiacciato il candidato forte, quel Carlo Callieri molto vicino alla Fiat, molto falco, grande esperto di relazioni industriali, assai gradito dalla grande impresa tradizionale. E lo ha schiacciato anche con i voti degli imprenditori del nord-est. Un fatto assolutamente sorprendente, vista l’insofferenza per la questione meridionale che spesso tracima dal nord.

Ma forse è proprio questa una chiave di lettura. La nomina di D’Amato, che nei prossimi due mesi presenterà il suo programma e i suoi collaboratori e che succederà ufficialmente a Giorgio Fossa il 25 maggio prossimo, potrebbe essere il segno che sta prendendo piede una nuova geografia imprenditoriale italiana, in cui finalmente pesano di più le medie e piccole imprese (cioè la vera spina dorsale produttiva del Paese), più legate al territorio ma comunque sospinte verso l’internazionalizzazione. E ciò non fosse altro che per istinto di sopravvivenza.

E’ possibile che proprio un uomo giovane e del sud possa dare l’accelerazione verso il nuovo: perché nel Mezzogiorno manca un apparato industriale tradizionale, e perché le vere sfide del futuro si giocheranno più sul terreno dei servizi e della new economy che non su quello della fabbrica come l’abbiamo conosciuta fin qui.

Dunque, in questo senso Antonio D’Amato potrebbe rappresentare, per citare cio’ che qualcuno ha gia’ detto, ciò che in politica ha significato il crollo del muro di Berlino.

Ma: sarà davvero così? Cos’è che non dice la votazione di Viale dell’Astronomia? Accanto a coloro che si entusiasmano per le prospettive che si aprono per il meridione (unica vera grande sfida per l’economia italiana) c’è anche chi mette in guardia contro la demagogia del riscatto del sud con i voti del nord-est. Molti di coloro che hanno dato il voto a D’Amato lo hanno fatto scegliendo un progetto. E questo apre la strada alle perplessità.

Il timore è che il nuovo corso confindustriale, appaiato alla grande attenzione per il Mezzogiorno e coltivato sul terreno caro anche alla Banca d’Italia di Antonio Fazio che più di una volta ha rispolverato concetti molto vicini alle gabbie salariali, non si sposti di un millimetro dal sentiero già tracciato dai falchi di Viale dell’Astronomia.

Vale la pena in questo senso ripercorrere alcuni concetti cari al nuovo presidente.

Sulla concertazione, per esempio: per D’Amato la concertazione non ha senso di per sé; ha valore solo se fa fare passi avanti alla modernizzazione. Quanto ai sindacati, li definisce “un po’ isterici” nella loro reazione ai referendum sociali. Dice: “con un linguaggio da anni Settanta stanno cercando di evitare che i nodi della competitività vengano affrontati”.

Sul Mezzogiorno, come i suoi predecessori chiede al governo un piano di azione triennale che affronti i nodi delle infrastrutture, della sicurezza, dei costi e della flessibilità. Sul lavoro, meno rigidità; sulle pensioni, superamento di quelle di anzianità e trattativa a tutto campo su ammortizzatori sociali, tfr e previdenza. “La new economy”, ha detto questa mattina, “si salva solo con la existing economy”. Quale sarà il prezzo per continuare a esistere, per D’Amato, si comprenderà nei prossimi mesi.

Un’ultima considerazione riguarda la stessa Confindustria. A dispetto di chi nega, è chiaro che la votazione di oggi ha spaccato il fronte degli industriali. Questa è l’altra cosa che lo spoglio puro e semplice dei voti non racconta ma lascia intuire.

Hanno un bel dire coloro che riportano il tutto alla pratica democratica: di fatto, mai la Giunta confindustriale si è trovata di fronte a un ballottaggio fra due aspiranti. La prassi ha sempre visto, semmai, uno dei candidati ritirarsi; e solo all’inizio degli anni Settanta si arrivò vicini a una situazione come quella odierna. Poi però arrivò l’intervento e la nomina calmieratrice di Gianni Agnelli.

Stavolta invece i tre saggi (Luigi Abete, Sergio Pininfarina e Luigi Lucchini, cioè gli ultimi tre presidenti prima dell’uscente Fossa) si sono trovati con due nomi tra le mani. E se lo stesso Avvocato ha ammesso che “tenevo per Callieri”, Carlo De Benedetti è andato oltre: “è inutile nasconderlo, su questo la Confindustria si è divisa”.

Tra i compiti che aspettano al varco il nuovo presidente c’è dunque la ricucitura di un fronte spaccato, e una scossa fin nelle fondamenta di un’organizzazione che ha bisogno di ripensarsi e di rinnovarsi. Bisogna vedere se sarà lui a farlo dando una spinta in avanti o se sarà la macchina che piano piano lo riassorbirà.