Che vincano i Sì o i No al referendum costituzionale di domenica, il premier Matteo Renzi, stanco delle polemiche e del tour mediatico pro riforme, potrebbe rassegnare in ogni caso le dimissioni.
Resta da vedere se uscirà di scena da vincente oppure no. Se le riforme verranno approvate dai cittadini – ipotesi difficile secondo i sondaggi – Renzi se ne andrebbe giusto per effettuare un rimpasto dell’esecutivo e risalire in sella, rafforzando sia il proprio ruolo che quello del governo con una nuova fiducia, al fine di “allargare la maggioranza e scegliere nuovi capi di ministero.
Nella ricostruzione ipotetica dei giornali italiani, Renzi sarebbe pronto a salire al Quirinale e rassegnare le dimissioni “con un’argomentazione ben precisa: questo governo è nato, nel 2014, con il chiaro e inequivocabile mandato di Napolitano di realizzare una riforma istituzionale, e ora che la riforma è realtà, l’esecutivo considera esaurito il compito”. Il capo di Stato Sergio Mattarella non avrebbe argomentazioni altrettanto valide per opporsi.
L’altra possibilità è che Renzi si dimetta da perdente, riducendo le sue speranze di vittoria alle prossime possibili elezioni anticipate, nell’estate del 2017. In questo caso, andarsene è comunque la scelta che gli offre maggiori possibilità di farsi eleggere per suffragio universale per la prima volta nella sua carriera politica. Il premier rimarrebbe libero di fare campagna elettorale da membro dell’opposizione di un governo di transizione e probabilmente tecnico.
L’unica cosa certa è che la legge elettorale verrà cambiata. I partiti storici, come avvenuto con il patto del Nazareno stretto tra Renzi e Silvio Berlusconi, vogliono trovare un punto d’incontro per scongiurare una vittoria del MoVimento 5 Stelle.
Secondo le indiscrezioni del Corriere della Sera esiste già la bozza di una modifica all’Italicum per una nuova legge che prevede “metà seggi assegnati con i collegi uninominali e metà con il proporzionale (senza preferenze ma con un listino bloccato), e con un premio di maggioranza attorno al 15 per cento per la lista o coalizione che prende più voti”.
È un modello che pare vada bene anche al fondatore di Forza Italia, perché permetterebbe all’ex presidente del Consiglio di unire le forze di centro destra e destra sotto l’asse Lega Nord-Fratelli d’Italia, presentando ancora lo storico simbolo del suo partito, in crisi di popolarità dopo la sua uscita di scena dalla vita politica per i ben noti problemi giudiziari.
L’uomo chiave delle trattative è ancora una volta Denis Verdini, l’ex braccio destro del tre volte premier. L’uomo che nelle più recenti trattative con gli altri partiti principali ha negoziato per conto di Berlusconi, “è convinto che il leader di Forza Italia accetterà una riforma di questo tipo”, scrive Maria Teresa Meli sul Corriere.
“Se Renzi resta banche sarebbero salve”
Secondo lo strategist Vincenzo Longo di IG Renzi potrebbe restare anche in caso di sconfitta. Se il governo uscisse dalla sfida referendaria battuto di poco, per esempio “un 52% contro un 48%”, una tale sconfitta di misura “consentirebbe a Renzi di continuare a governare, magari dopo un rimpasto. Non sarebbe un evento così drammatico. Lo spread Btp-Bund salirebbe al massimo a quota 220″, oltre la soglia di pericolo ma non su livelli da temere un crac del credito.
Se il premier resta garantendo una continuità alla sua attività di governo, i piani di salvataggio delle banche in crisi come Mps sarebbero più al sicuro, perché sarebbe più facile attirare investitori stranieri e i pericoli di attacchi speculativi sui mercati contro l’azionario e il debito governativo italiano rientrerebbero.
Se Renzi ce la farà a proseguire fino al 2018, “ci sarà meno incertezza. Ciò potrebbe convincere il Qatar a diventare un socio stabile di Mps. Sarebbe un primo passo” per la messa in sicurezza del travagliato settore bancario italiano.
La chiave, dice sempre l’analista intervistato da Il Giornale, è tutta nell’ennesima operazione di salvataggio di Mps, che peraltro non esclude il ricorso al bail-in. Se va in fumo quell’aumento di capitale, “proposto ad azionisti che non ce la fanno più”, con la scelta per giunta di negare il diritto di voto, allora anche UniCredit ne subirà le conseguenze.
“Unicredit è l’unica banca sistemica italiana, ma potrebbe accusare il colpo se qualcosa con Mps va storto. Ad esempio, potrebbe far slittare il suo aumento di capitale, o la cessione di Pekao e delle sofferenze. E non va dimenticato che i titoli di Intesa SanPaolo, dall’elezione di Trump, sono andati peggio di quelli di Deutsche Bank, che è molto meno patrimonializzata. La spia dei timori dei mercati è anche questa”.
Il tempo stringe per le banche italiane, cariche di crediti deteriorati e situazioni patrimoniali traballanti: l’anno prossimo Mario Draghi inizierà con ogni probabilità il percorso di rientro dalle misure ultra accomodanti straordinarie varate dalla Bce. Quando con il cosiddetto tapering finirà la copertura di Draghi, che sta comprando bond dell’Eurozona al ritmo di 80 miliardi di euro al mese, Longo avverte che “sarà meglio che le nostre banche abbiano risolto i problemi di ricapitalizzazione”.