Si può affermare senza tema di smentita che, all’inizio del 2016, in pochi avrebbero previsto di chiudere l’anno con il presidente eletto Trump in procinto di insediarsi alla Casa Bianca e la classe dirigente britannica in lite aperta sulla modalità (dura, morbida o una via di mezzo?) dell’uscita del Paese dall’Unione Europea.
Dopo l’andamento fiacco del 2015 in molte aree del reddito fisso, il 2016 è stato nel complesso più positivo, nonostante la forte volatilità. Gli spread si sono contratti nel credito investment grade e, ancora di più, nel segmento dei titoli high yield, in cui i tassi di default sono rimasti elevati, anche se su questo hanno inciso soprattutto gli emittenti del settore energetico e l’incremento graduale del prezzo del petrolio dovrebbe attenuare almeno in parte le pressioni su queste società. E dopo un 2015 di passione per i mercati emergenti, l’asset class ha visto un andamento decisamente più positivo nel 2016, almeno fino alla vittoria di Donald Trump in novembre.
Una delle reazioni più evidenti dei mercati finanziari al risultato elettorale è stata la brusca correzione scattata sui titoli di Stato. Ora che il partito Repubblicano ha conquistato la maggioranza dei seggi sia al Senato che al Congresso, il presidente eletto Trump dovrebbe avere i numeri per realizzare le politiche economiche promesse, imperniate su una spesa infrastrutturale consistente e lauti sgravi fiscali per le imprese. Dovremmo aspettarci la messa in atto anche delle paventate misure di stampo protezionista.
La Trumponomics è la nuova Reaganomics?
Sono state proposte molte similitudini fra la situazione che si prospetta per Donald Trump nel 2017 e quella esistente nel 1981, ai tempi dell’insediamento di Ronald Reagan. All’epoca, Reagan aveva ereditato un’economia anemica con un tasso di inflazione prossimo al 15%. La sua prima risposta fu l’Economic Recovery Tax Act, una legge che prevedeva ampi tagli alle imposte, entrate inferiori per lo Stato e una riduzione della spesa pubblica previdenziale. Di conseguenza, i rendimenti sui Treasury salirono ai massimi di sempre. A quei tempi, il rapporto debito/PIL era di appena il 30%, un livello molto distante dal quasi 100% che Trump sta ereditando oggi (si veda il grafico 1).
Ciò spiega il timore che Trump semplicemente non disponga del margine di cui godeva Reagan per procedere con la Trumponomics senza spaventare i mercati. La sua proposta di incrementare lo stimolo fiscale si annuncia inflazionistica e, se davvero dovesse dichiarare guerra aperta sul piano commerciale, l’impatto potrebbe essere ancora più pronunciato, con i dazi imposti per rappresaglia destinati a spingere verso l’alto i prezzi dei beni importati.
È la fine della globalizzazione?
La vittoria di Trump e il voto britannico a favore della Brexit sono due delle sfide più rilevanti degli ultimi anni per lo status quo economico mondiale, che hanno riportato in auge il dibattito intorno all’impatto della globalizzazione sul mondo sviluppato.
Sul tema degli scambi commerciali, la mossa dei Paesi ricchi di delocalizzare i centri produttivi all’estero e la conseguente perdita di posti di lavoro nel mondo sviluppato sono state additate dai politici populisti come conseguenze negative del libero commercio.
Il “grafico a elefante” (vedi sotto) mostra come i redditi della metà più povera del mondo siano cresciuti con la stessa rapidità di quelli dell’1% più ricco del mondo, nei vent’anni fino al 2008, mentre i redditi della classe media del mondo sviluppato sono rimasti stagnanti, il che forse contribuisce a spiegare l’ascesa del nazionalismo nei Paesi avanzati.
Ovviamente ci sono molti altri fattori in gioco, inclusi i voti di protesta contro i governi in carica e le questioni legate all’immigrazione. Il compito che ora devono affrontare gli economisti è la valutazione dell’impatto che può avere sull’economia globale un’amministrazione USA più proiettata all’interno. Se le nazioni cominciano a rinnegare gli accordi commerciali innalzando barriere doganali, potrebbe innescarsi un circolo vizioso di azioni e reazioni destinato a sfociare in una contrazione della crescita mondiale. In un ambiente di questo tipo, perdono tutti.
Austerità e disuguaglianza: non è solo un problema anglosassone
In nessun’altra regione come nell’Europa di oggi i temi dell’austerità e della crescente disuguaglianza sono mai stati tanto attuali. La disoccupazione ostinatamente alta, combinata con il deterioramento della qualità della vita, ha determinato livelli di instabilità civile e politica sempre più alti, e i partiti populisti e nazionalisti sono riusciti ad approfittare di questo fenomeno.
Per la Francia si prospetta un importante banco di prova politico nella primavera del 2017, quando sono in programma le elezioni presidenziali. Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, tenterà di cavalcare l’onda di consenso che ha saputo costruirsi per guidare il partito alla sua prima vittoria. Se è vero che questo risultato richiederebbe un massiccio spostamento di voti, gli eventi recenti sono lì a ricordarci che l’ascesa dei partiti anti-establishment su scala mondiale non è da sottovalutare.
Una difficoltà aggiuntiva per l’Europa deriva dal fatto che la sua capacità di stimolare la crescita e l’occupazione attraverso l’aumento della spesa pubblica e infrastrutturale e la riduzione delle imposte è più limitata, in confronto ad altre economie. Gli alti livelli di indebitamento stanno costringendo la maggior parte degli Stati europei a frenare la spesa, anziché incrementarla. L’impossibilità di stampare moneta a livello dei singoli Paesi impone peraltro a ogni Stato membro dell’Unione Europea di dimostrare una disciplina fiscale notevole.
Per i partiti politici europei tradizionali che aspirano a recuperare i voti persi a favore dei rivali più estremisti, la sfida è quindi migliorare gli standard di vita di centinaia di milioni di europei, rispettando al contempo i vincoli di bilancio imposti dall’UE.
Il 2017 e l’effetto Trump
Come già notato, l’elezione di Trump implica probabilmente l’adozione di una politica di bilancio fortemente espansionista da parte negli Stati Uniti. Il presidente eletto ha anche proposto un deciso incremento della spesa per infrastrutture e del budget per la difesa. Se questo dovesse spingere l’inflazione già in ascesa, la Federal Reserve potrebbe trovarsi costretta a innalzare i tassi d’interesse provocando, di conseguenza, un ulteriore apprezzamento del dollaro.
Lo yen e l’euro sembrano particolarmente vulnerabili, vista la conferma della politica monetaria espansiva da parte della Banca del Giappone (BoJ) e della Banca centrale europea (BCE). La decisione della BoJ di passare a misure mirate alla curva dei rendimenti garantisce che i tassi reali scendano con l’aumento dell’inflazione, pertanto che le condizioni finanziarie diventeranno sempre meno rigide, con l’avanzare della ripresa.
In Regno Unito, il Ministro delle Finanze Philip Hammond ha confermato nella dichiarazione d’autunno che non ci sarà un avanzo di bilancio, le regole per la spesa pubblica saranno allentate e il gettito fiscale sarà inferiore, a causa degli utili e dei consumi delle famiglie mediamente più bassi.
Il dilemma dell’Europa sul QE
L’annuncio della BCE di marzo, riguardo all’estensione del piano di acquisti di asset alle obbligazioni societarie non bancarie di categoria investment grade (IG), non ha fatto altro che accentuare il divario fra Stati Uniti ed Europa.
La flessibilità del programma ha colto di sorpresa il mercato, provocando una contrazione decisa e immediata degli spread del credito, non solo nel segmento dei titoli potenzialmente idonei all’acquisto, ma anche sui mercati europei delle obbligazioni societarie in generale, inclusa l’estremità inferiore dello spettro di rischio IG.
Uno dei risultati principali è che la BCE è diventata formalmente un nuovo grande attore insensibile ai prezzi sul mercato dei titoli corporate europei. In quanto tale, ha fornito un vigoroso supporto tecnico al credito europeo, fissando un limite minimo per i prezzi e spingendo ancora più in basso i rendimenti obbligazionari.
Una conseguenza voluta del QE è nota come l’effetto di ribilanciamento dei portafogli, che si verifica quando gli investitori privati, nel tentativo di ottenere remunerazioni positive, sono costretti ad assumere rischi di credito sempre maggiori. Per molti, questo ha determinato uno spostamento verso il basso lungo la curva di credito, ma soprattutto all’esterno, alla ricerca di obbligazioni con rendimenti positivi.
Guardando al 2017, l’umore di mercato resta fragile. L’extra rendimento offerto dai Treasury rispetto ai bund tedeschi è vicino ai massimi di sempre e la situazione è analoga nel mercato dei titoli societari. Più la BCE continua a esercitare una pressione al ribasso sui rendimenti delle obbligazioni corporate europee, maggiore sarà l’incentivo per gli investitori ad allontanarsi verso i rendimenti relativamente più attraenti disponibili sul mercato dei titoli societari statunitensi.
L’economia europea era in piena deflazione, ai tempi del lancio del programma di acquisti di asset. Da allora, l’inflazione mensile è leggermente migliorata, grazie alla ripresa dei prezzi delle commodity su scala mondiale. Pur essendo ancora lontana dall’obiettivo della BCE, vicino ma al di sotto del 2%, ha beneficiato del momentaneo sostegno dovuto alla recente stabilizzazione dei prezzi energetici. Nei prossimi mesi, la BCE terrà sotto stretto monitoraggio le aspettative di inflazione, per valutare l’eventuale esigenza di ulteriori misure monetarie espansive.
Mercati emergenti: solo cattive notizie?
La vittoria di Trump ha molteplici implicazioni per i mercati emergenti. A prima vista, l’esito è chiaramente negativo, considerando i rischi potenziali legati a fattori come la recrudescenza del protezionismo, il forte incremento della spesa pubblica, le misure anti-immigrazione e l’incertezza sul fronte della politica estera.
Va detto, però, che l’impatto della presidenza Trump non sarà uniforme. Alcuni Paesi di rilievo, come l’India e il Brasile, sono economie relativamente chiuse che dovrebbero restare isolate dalle conseguenze degli sviluppi negli Stati Uniti, mentre nazioni come la Repubblica Ceca e l’Ungheria dipendono molto più dall’Europa, in termini di esportazioni. Da parte sua, la Russia potrebbe beneficiare di un eventuale allentamento delle sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti.
L’attenzione sarà focalizzata principalmente sulle relazioni fra USA e Cina. Come maggiore investitore estero nel debito pubblico statunitense, la Cina potrebbe considerare di ridurre queste posizioni per prevenire un deprezzamento troppo rapido della propria valuta nei confronti del biglietto verde. I possibili eventi chiave da tenere d’occhio sono l’introduzione di dazi o la decisione di additare la Cina come la fonte di manipolazioni dei cambi valutari.
Nonostante la forte ascesa dei rendimenti sui Treasury seguita alle elezioni, ci aspettiamo ulteriori rialzi anche se più contenuti e graduali. Per diverse economie emergenti questa prospettiva è meno problematica di quanto sarebbe stata in precedenza, dopo gli interventi realizzati per ridurre il disavanzo corrente e i livelli complessivi di debito denominato in dollari USA.
Tuttavia, come accade sempre per tutte le asset class, e a maggior ragione per i mercati emergenti, molto dipenderà dal flusso di notizie con l’ingresso nel 2017 e da quanto il nuovo anno si rivelerà ricco di sorprese come il 2016.