Improvvisi cambi di rotta. Fughe in avanti, seguite da rapidi arretramenti. E investitori sempre più disorientati dal balletto (un po’ scoordinato) dei banchieri centrali. Nelle ultime due settimane, le esternazioni di Janet Yellen, presidente della Federal Reserve e Mario Draghi, governatore della Bce, sono apparse a più riprese contradditorie e incoerenti. Prima si è accennato a una possibile accelerazione del processo di normalizzazione della politica monetaria, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Poi, a distanza di pochi giorni, i due governatori hanno esibito toni concilianti, lasciando intendere che prudenza e gradualità rimarranno il faro della rispettiva azione anche nei prossimi mesi.
“È stato un tentativo di reintrodurre un minimo di volatilità nei mercati e di ridurre così certi eccessi di posizionamento? – s’interroga Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, nella sua rubrica settimanale “Il Rosso e Il Nero” -. L’impressione è che si navighi a vista”.
Si cerca tutt’al più di dare maggiore stabilità alla nave, spiega Fugnoli, aggiustando i pesi interni: s’inizia lentamente (da settembre) a svuotare di liquidità la cisterna americana – il riferimento è all’inizio del processo di smaltimento del bilancio Fed, gonfiato fino a quota 4,5 mila miliardi di dollari, cinque volte la soglia del 2017. Ci si prepara a ridurre il flusso versato in quella europea (probabilmente da gennaio), attraverso una ulteriore riduzione dello stimolo monetario.
“Ma in compenso la cisterna giapponese s’appresta a essere riempita in modo ancora più aggressivo. L’effetto netto è quasi nullo”, conclude lo strategist, secondo cui il travaso di liquidità si accompagna a un aggiustamento dei rapporti di cambio, che riflette correttamente il perdere colpi da parte di America e Giappone e la nuova forza dell’economia europea. Le valute restano dunque protagoniste nei portafogli. “Essendo un aggiustamento deciso a tavolino, è meglio seguirne la tendenza: corti di dollaro e yen, lunghi di euro, Canada, Australia ed emergenti”.
Navigando senza coordinate, tuttavia, gli investitori rischiano di perdersi, esponendosi a potenziali errori di politica monetaria: da un lato, la prudenza delle banche centrali alimenta una bolla generalizzata sugli asset finanziari. “Dovesse l’inflazione alla fine arrivare, lo scoppio della bolla renderebbe gli effetti di un rialzo ritardato dei tassi ancora più pesanti e potrebbe portare a una recessione”. Allo stesso risultato, del resto, si potrebbe arrivare anche nello scenario opposto, ovvero alzando i tassi e abbandonando il Quantitative easing troppo in fretta.
Di fronte a questo dilemma, l’immobilismo sfortunatamente non paga, per almeno due ragioni:
“I mercati lo leggono come il via libera per l’espansione senza limiti dei multipli azionari e per l’acquisto senza ritegno di bond a 100 anni di emittenti anche discutibili. In secondo luogo, perché si avvicina sempre di più il momento in cui i modelli econometrici si metteranno a lampeggiare prima e a fare partire le sirene poco più tardi per segnalare l’esaurimento dell’output gap (divario tra prodotto interno lordo effettivo e potenziale ndr), ovvero della benzina che alimenta una crescita senza inflazione”. Secondo Fugnoli, “Borse e bond continueranno quindi a non avere seri problemi fino al giorno in cui si vedrà salire l’inflazione. Oggi nessuno sa se quel giorno sarà fra tre mesi, tra un anno o mai. Più i mercati salgono e più quel giorno, se mai arriverà, sarà spiacevole. Per questo il suggerimento resta quello di continuare a godere del bull market stando investiti, ma con moderazione”.