No pentimento, no ai “servizi sociali”.
Per un evasore fiscale incallito, già condannato per associazione a delinquere finalizzata alla emissione di false fatturazioni e dichiarazioni fraudolente, respinta la richiesta di “Servizi sociali” in luogo del carcere.
Tentare di ottenere il richiesto beneficio è legittimo a condizione, dice la Suprema Corte di cassazione che il nostro “fedigrafo fiscale”, dia effettiva prova di ravvedimento dal danno cagionato alla comunità per la evasione di alcuni milioni di euro.
Bene ha fatto il Tribunale di merito a respingere la richiesta, sia pure in presenza della manifestata disponibilità a restituire all’Erario la modica somma di appena diecimila euro, ritenuta insufficiente a sanare il danno provocato con la condotta antigiuridica.
Per il Tribunale infatti, il condannato intendeva gli strumenti di esecuzione alternativi della pena, non come un percorso di rieducazione ma solo, in un’ottica del tutto strumentale, unicamente come un modo per sfuggire alla carcerazione.
Il nostro “fedigrafo” invece, ha stigmatizzato il modus operandi del tribunale di sorveglianza che ha dato troppa importanza al “vile denaro” senza invece valorizzare a sufficienza la sua disponibilità a fare “volontariato”.
Con la sentenza n. 39186 del 18 agosto 2017, gli Ermellini nel respingere la richiesta di “affidamento ai servizi sociali” ha sostanzialmente detto che “senza soldi non si cantano messe” e pertanto offrendo pochi “spiccioli”, ha dimostrato – semmai ce ne fosse stato bisogno – di non avere la volontà di riparare almeno in parte, all’enorme evasione fiscale, sommariamente quantificata in qualche milione di euro d’imposta sottratta all’Erario.
Insomma, va bene l’applicazione delle “misure alternative al carcere” a condizione che ci sia la reale volontà del condannato a riparare al danno provocato alla collettività.
Senza soldi, il condannato è libero di continuare di vedere “il sole a stelle & strisce” come si usa dire in gergo.
Giustizia è fatta, forse!