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Complice la Bce, “l’euro scivolerà a quota $1,13”

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Dopo la vampata della scorsa settimana, fin sopra i massimi del gennaio 2015, a quota 1,20, il cambio euro dollaro pare aver imboccato un movimento laterale, da interpretare – suggeriscono gli analisti – come una pausa di riflessione temporanea. C’è spazio per un’ulteriore rafforzamento della moneta unica?

La maggior parte degli economisti ne è convinta. Oggi, si ritiene che l’euro sia relativamente sottovalutato in termini di parità dei poteri d’acquisto, nell’ordine del 5/10%, rispetto a un paniere di valute ponderato in funzione degli scambi commerciali. Anche uno strumento più intuitivo come il Big Mac index, elaborato dall’Economist mettendo a confronto il potere d’acquisto delle valute sulla base del prezzo di un panino di McDonald’s nei diversi Paesi, fissa “l’equilibrio” con il dollaro molto più in alto, a 1,36. Equivarrebbe a un ulteriore apprezzamento del 14% sul biglietto verde Peccato che la teoria sulla quale si basano tutti questi modelli sia necessariamente da inquadrare su un orizzonte di lungo periodo e perda inevitabilmente rilevanza su periodi più brevi, in favore di altri parametri: la dinamica dei differenziali d’interesse, i flussi di capitale, le bilance commerciali e così via.

Secondo Thomson Reuters Lipper, i fondi azionari europei hanno catturato 23,4 miliardi di euro da maggio, a fronte di un’emorragia di capitali pari a 24 miliardi dai fondi americani. Da qualche mese, infatti, è in atto un riposizionamento strutturale sulla moneta unica da parte degli investitori globali, che negli ultimi tre o quattro anni avevano disertato (o venduto) l’euro.  La tendenza sembra destinata a proseguire. Ma nel breve conteranno soprattutto altri fattori. “Il tantrum dell’Euro dovrebbe presto giungere al termine. Per la fine dell’anno, ci attendiamo un cambio euro/dollaro a 1,13”, profetizza Pierre Olivier Beffy, Chief Economist di Exane BNP Paribas.

Va detto che il terreno dei cambi è particolarmente scivoloso per chi fa previsioni. A inizio anno, le grandi banche d’affari e i colossi della gestione del risparmio, da Goldman Sachs a Credit Suisse a Deutsche asset management, per citare alcuni esempi, avevano previsto la parità con il dollaro entro la fine del 2017. Invece l’euro ha messo a segno un guadagno di oltre 14 punti percentuali in otto mesi, prima di ripiegare lievemente.

Le argomentazioni di Beffy, tuttavia, appaiono convincenti. “La divergenza tra le politiche monetarie della Fed e della Bce dovrebbe tornare al centro dell’attenzione mentre l’inflazione ciclica dovrebbe essere migliore delle attese nel 2018, soprattutto negli Stati Uniti. Per questo motivo, la Fed dovrebbe procedere a quattro rialzi dei tassi entro la fine del 2018, già largamente prezzati dal mercato. Dall’altro lato, la Bce dovrà mostrarsi più dovish (accomodante ndr) alla luce del recente restringimento delle condizioni finanziarie. Inoltre, anche la differenza tra i tassi e il posizionamento attuale dovrebbero supportare un rimbalzo tattico del dollaro”.

I radar degli investitori sono dunque puntati verso la riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea. Molti osservatori scommettono che Mario Draghi non annuncerà un’ulteriore riduzione dello stimolo monetario, frenato, pare, proprio dal rapido rafforzamento della divisa comunitaria. A dettare il passo della moneta unica sarà in ogni caso anche la forza (o debolezza) relativa del dollaro. Il passo claudicante dell’amministrazione Usa sul sentiero delle riforme tracciato – a parole – durante la campagna elettorale, ha reso scettici gli investitori sulla capacità di Donald Trump di concretizzare gli stimoli fiscali.

“Tuttavia, nonostante l dibattiti sul livello del debito – “Uno shutdown delle attività governative sembra probabile”, chiosa Beffy – potremmo assistere a una serie di risvolti positivi sul piano politico negli Stati Uniti, entro la fine dell’anno. Nel corso dei mesi scorsi, infatti – conclude l’economista – Trump ha rimpiazzato diverse figure centrali della sua amministrazione, spianando la strada a un outlook migliore del previsto per la situazione fiscale statunitense”.