Prima era l’occidente che esportava l’inflazione in Cina che in cambio rimandava indietro deflazione. In un mondo sempre più globalizzato un simile rapporto tra i due blocchi ha compromesso la capacità dei paesi occidentali industrializzati di influenzare i tassi di inflazione con le politiche monetarie.
Ma gli analisti di Enodoeconomics avvertono che gli equilibri potrebbe presto ribaltarsi e che i mercati non sono preparati a una simile prospettiva. L’economista Diana Choyleva è convinta che non dovremmo preoccuparci della Cina che esporta da noi deflazione, quanto piuttosto l’esatto contrario.
“La maggior parte degli investitori mondiali prevede che Pechino abbia successo nel suo processo di trasformazione in un modello economico di sviluppi più equilibrato, mentre la minoranza – che pensa che ci siano ostacoli insormontabili e che c’è da aspettarsi il materializzarsi di una crisi – si preoccupa della Cina che esporta deflazione al resto del mondo”, osserva Choyleva, la cui analisi punta in tutt’altra direzione, tuttavia.
“I miei calcoli dicono che è l’inflazione della Cina di cui i mercati dovrebbero preoccuparsi nei prossimi trimestri”. L’indice deflatore del Pil ufficiale, uno strumento che consente di “depurare” la crescita del Pil dall’aumento dei prezzi, evidenzia un’accelerazione dei prezzi al consumo mentre l’indice CPI, quello maggiormente monitorato dagli investitori e dagli analisti, mostra un andamento freddo dei prezzi al consumo.
Qualcosa non torna, dice Choyleva. Da diverso tempo, per esempio, l’inflazione misurata dal CPI diverge in modo marcato dall’inflazione calcolata dal deflatore.
“È normale che ci sia una divergenza, perché i due indicatori misurano cose diverse. Siccome l’indice CPI pondera il peso di diversi beni e servizi sulla base dei consumi generali, di solito nel corso di un anno, non tiene conto di eventuali variazioni di prezzo dei beni e servizi alternativi. Ma la differenza ormai è diventata troppo ampia” per essere spiegata semplicemente affidandosi a un’analisi superficiale.
Secondo l’economista, l’inflazione (indice CPI) è rimasta contenuta negli ultimi mesi per via della componente degli alimentari, che ha addirittura subito una virata in negativo quest’anno. La causa di un simile andamento è da ricercare dall’offerta in eccesso. Se dai dati macro citati si depurano cibo ed energia, si ottiene un indice CPI ‘core’ in aumento del 2,3% in settembre dopo la variazione dell’1,3% dell’anno prima.
“Detto questo – aggiunge l’economista nel suo report – è con i dati di settembre sui prezzi delle esportazioni e delle importazioni che otterremo un quadro veramente completo su quello che è successo il mese prima”. Non rimane che aspettare qualche giorno per scoprire la verità.