Alle elezioni politiche della prossima primavera sono principalmente tre le grandi forze politiche realisticamente in grado di vincere: il MoVimento 5 Stelle, la coalizione dell’area di destra (Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d’Italia) e quella di orientamento più a sinistra che si presuppone sarà guidata dal Partito Democratico (ancora non è chiaro se riuscirà ad assicurarsi l’alleanza con Verdi, Italia dei Valori, potenzialmente MdP e qualche corrente centrista). A giudicare dai programmi economici, si possono considerare tutte e tre fazioni “populiste”, nel senso più stretto del termine.
A osservarlo è Gavin Jones, giornalista di Reuters, il quale in un’esamina pubblicata ieri cita a supporto della sua tesi il fatto che, almeno a giudicare dalle loro dichiarazioni e dai loro programmi, i “politici di tutte le formazioni affermano di voler utilizzare le risorse extra per tagliare le tasse e aumentare la spesa, piuttosto che per alleggerire l‘onere del più pesante debito pubblico nell‘eurozona dopo quello greco”.
Al contrario delle ultime elezioni presidenziali francesi, in Italia anche i partiti sulla carta “moderati” sono populisti. L’idea di fondo per tutti è quella di garantire al popolo che il futuro governo adotterà misure popolari, facendo una campagna elettorale con al centro la lotta diplomatica contro l’Europa unita. Non per forza per uscire dall’area euro – anche i più estremi in questo frangente, Lega Nord e M5S, sono consapevoli dei rischi e delle difficoltà che comporterebbe la messa in pratica di un simile progetto (per cambiare i trattati andrebbe rivista la costituzione) – ma almeno per riconquistare parte della propria sovranità.
Elezioni: i programmi economici dei principali partiti
“La promessa di tagliare fino a 50 miliardi di euro le tasse sul reddito e sulle società e rimangiarsi l’impegno preso dall’Italia di riportare in equilibrio il bilancio viene dall’ex premier e leader del Pd, Matteo Renzi“. Renzi, in calo nei sondaggi e negli indici di gradimento dopo la sconfitta al referendum costituzionale di dicembre 2016 e dopo la scissione dell’ala più a sinistra del partito, l’MDP dei vari Bersani, Speranza e Cuperlo, prova a giocarsi la carta delle promesse popolari e della tattica antagonista a Bruxelles.
“Renzi intende aumentare il deficit dalla quota prefissata per quest‘anno del 2,1% rispetto al Pil, fino al 3% e poi mantenerlo a quel livello, e questo mese ha detto che “sbatterà i pugni sul tavolo” a Bruxelles per raggiungere il risultato.
Quanto all’area di centro destra, la coalizione di orientamento conservatore ha avanzato il progetto di stampare una “nuova lira” a uso interno, mantenendo l‘euro per gli scambi internazionali. L’ex quattro volte premier Silvio Berlusconi assicura che lo schema spingerà i consumi e favorirà la crescita. Berlusconi parla da leader ma non è ancora sicuro di potersi candidare, per via del blocco dai pubblici uffici imposto dalla Legge Severino dopo la sua condanna in via definitiva per evasione fiscale.
Non si sa quindi chi sarà a guidare il gruppo, ma che assicura che lo schema servirà a spingere in alto i consumi e la crescita economica. Quello che si può invece affermare per certo è che, per paura che sia un boomerang politico in certi casi, ma anche per convinzione di idee, in altri, “nessuno dei principali partiti sta basando la campagna elettorale su una piattaforma ortodossa, imperniata sul consolidamento fiscale e capace di soddisfare i mercati finanziari o la Commissione europea“.
Da parte sua la Lega Nord ha lanciato il suo progetto di valuta parallela, battezzata mini-Bot, vista prima pietra di un‘uscita dall‘euro. Oltre alla moneta parallela, Matteo Salvini e i suoi vogliono introdurre una flat tax: si tratta di un‘aliquota fiscale unica del 15% per individui e imprese, al posto delle attuali cinque fasce di tassazione sul reddito che vanno dal 23 al 40%. Secondo Claudio Borghi, economista portavoce della Lega in campo economico, la misura ridurrebbe gli introiti di 40 miliardi di euro (circa il 2,5% del Pil) ma ciò sarebbe presto compensato da un calo dell’evasione fiscale e da una spinta alla crescita.
Perché in Italia prospera il populismo
La principale ragione per la quale in Italia prospera il populismo, secondo Gavin Jones di Reuters, è che il rigore fiscale prescritto dall‘Ue viene considerato “il principale responsabile di una doppia recessione tra il 2008 e il 2013, dalla quale il paese si sta riprendendo soltanto in modo graduale”. In realtà c’è un’altra ragione, di natura puramente politica: l’Italia è sempre in campagna elettorale (lo siamo dal 2013 praticamente, visto che le opposizioni non fanno opposizione costruttiva bensì ostruzione).
Nessuno vuole cimentarsi in misure impopolari perché ha in testa solo ed esclusivamente il voto e non il bene del paese (e ne ha ben donde visto che non c’è continuità , a esclusione forse dei 17 anni su 20 di Berlusconi , che peraltro pure è l’emblema del populismo e le cui misure poco rigorose hanno contribuito a lasciare in disordine i conti pubblici, poi finiti in piena crisi quando è crollata la fiducia nel sistema Italia all’apice della crisi dei debiti sovrani nel 2011. L’Italia soltanto in una occasione dopo la nascita della Repubblica nel 1948 ha avuto un governo in grado di porre a termine un mandato di cinque anni.
Reuters cita gli ultimi sondaggi pre elezioni, che mettono in evidenza l’euro scetticismo montante in Italia. Una rivelazione commissionata un mese fa dal parlamento europeo mostrava che “soltanto il 39% degli italiani sente che il proprio paese ha beneficiato dell’appartenenza alla Ue, il dato più basso registrato nei 28 stati membri“. In ottica elezioni, dice Jones, “le politiche di bilancio considerate conformi alle tendenze politiche ed economiche dominanti in Europa, sono viste come perdenti” in un paese come l’Italia, dove negli anni recenti il MoVimento 5 Stelle pur essendo all’opposizione è riuscito a “dettare l’agenda politica”.
Le idee e gli strumenti utilizzati dalle tre principali forze politiche del paese sono diversi e contrastanti, ma il fine ultimo è lo stesso: guadagnarsi i voti di un corpo elettorale sempre più deluso, disinnamorato della politica e che ancora porta i lividi della perdita di potere d’acquisto provocata dall’euro.