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LE DUE CRISI

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Dove va la Fiat? A questa domanda viene da rispondere con un’altra domanda: dove va l’Italia? La Fiat e l’Italia hanno molti vizi e virtù in comune e, per un certo verso, anche storie parallele: ora si trovano entrambe di fronte a una crisi seria, di difficile uscita poiché tutte le «italiche genialità» sono difficili da ripetere nella comunità europea e nel mondo globalizzato.

L’Italia è stata protezionista (l’autarchia non è stata un’invenzione di Benito Mussolini) e la Fiat è stata protetta e continuamente aiutata dallo stato, a cominciare dalle commesse belliche per la guerra di Libia del 1911. L’Italia è stata imbrogliona, ancor prima di Tangentopoli c’era stato lo scandalo crispino della Banda Romana, del buon Tanlongo. La Fiat anche: il suo rifondatore, il rag. Valletta, fu protagonista di uno storico imbroglio processuale che assolse Giovanni Agnelli primo dalla truffa azionaria fatta ai danni dei suoi soci. L’Italia è stata trasformista e la Fiat anche: bastano le foto del vecchio senatore Agnelli in camicia nera.

E in mezzo a tanti vizi c’è stata anche una convergenza di virtù di entrambe le imprese: audacia, capacità di innovazione, l’abilità di mettere insieme le cose più contrastanti: tra la siderurgia pubblica dell’Iri e la meccanica privata della Fiat il matrimonio fu eccellente: le carrozzerie Fiat con i laminati d’acciaio dell’Italsider erano le meno costose del mondo.

Entrambe le imprese (mi scuso per l’uso di questo termine, che però mi sembra storicamente appropriato) soffrono del degrado, forse è meglio dire decadenza, dei gruppi dirigenti. Da una parte non ci sono più Valletta, Costa, Romiti e dall’altra (un po’ più in su) non ci sono neppure De Gasperi, Togliatti, Amendola che a suo tempo, in una delle ennesime crisi Fiat, si oppose a una possibile irizzazione del gruppo automobilistico. Era il tempo quando Pasquale Saraceno mi diceva con grande soddisfazione: adesso dopo i transatlantici abbiamo anche Motta e Alemagna. La Fiat fu sul punto di passare all’Iri, che sarebbe stato come l’ufficializzazione di un matrimonio morganatico.

Ora le due crisi coincidono: c’è un declino dell’economia italiana e la Fiat è sul punto di portare i libri in tribunale. E chi ci va di mezzo, o meglio sotto i piedi, sono i lavoratori, che oggi, come spiega D’Alema, non hanno più la forza e la ragione di avere una rappresentanza diretta nei partiti di sinistra: solo i conservatori – ci dicono sempre dall’attuale sinistra – continuano a pensare che il lavoro sia elemento costitutivo della società e delle persone.

Due crisi coincidenti rendono difficile ogni soluzione. L’Italia non è più quella di Pasquale Saraceno e la nazionalizzazione della Fiat, come con buona volontà qualcuno suggerisce, sarebbe per un verso la replica del vecchio adagio della polemica socialista, quello della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Per altro verso sarebbe impossibile, sia perché mancano i soldi sia perché non sarebbe consentito dalle regole della comunità europea.

Tuttavia, non possiamo dire «è affare di lor signori»: in mezzo, sotto, ci sono le vite di decine di migliaia di operai e delle loro famiglie. Lo stato, ancorché berlusconiano, deve intervenire: deve dare soldi e dettare condizioni, indirizzi di ricerca e di produzione. Se la maggiore industria del paese sta per crollare, non possiamo cavarcela con provvidenze caritatevoli e aiuti al padrone perché eviti l’onta del fallimento.

Ma qui si torna al punto, al problema: quale politica economica vogliamo per questo paese in crisi che non sia il tirare a campare dell’attuale governo blindato nella sua maggioranza e paralitico nel suo agire, incapace anche di essere di destra: che avrebbe pur sempre una sua dignità.

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