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Deutsche Bank: cattive notizie per dollaro e strategie a parità di rischio

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Dalla fine della scorsa settimana gli investitori danno l’impressione di volersi allontanare da tutto ciò che sembra rischioso. Una nota del capo strategist di Deutsche Bank Alan Ruskin si concentra sull’analisi della minaccia per i fondi e i portafogli di investimento basati su strategie a parità di rischio. È diventato sempre più raro, in concreto, vedere due o più settimane consecutive in cui i rendimenti obbligazionari Usa salgono e i prezzi di Borsa scendono. Così scrive Ruskin:

“Due o più settimane consecutive di rendimenti obbligazionari statunitensi in rialzo e prezzi azionari in calo sono diventate progressivamente un fenomeno sempre meno ricorrente dagli Anni Ottanta – Novanta e in particolare dalla crisi finanziaria del 2008. Tre settimane di fila di azioni in ribasso e rendimenti a 10 anni in progresso non si vedono da più di un decennio” (vedi grafico sotto).

Si tratta di una cattiva notizia per i mercati, che si stanno forse preparando a un cambiamento radicale per due dei fattori macro fondamentali del mondo post crisi dei mutui subprime: ossia un allentarsi della repressione finanziaria per via della riduzione dei bilanci delle banche centrali e un’inflazione in surriscaldamento. I prezzi di Bond e Borse che scivolano all’unisono potrebbe sembrare un evento insolito, perché lo è stato nell’ultimo decennio, ma non è così.

Quando l’azionario sale, spiega l’analista di Deutsche Bank, negli ultimi anni ha spinto verso l’alto i rendimenti obbligazionari, al punto che i rendimenti obbligazionari più elevati alla fine hanno trascinato le Borse verso il basso. L’effetto positivo si trasforma così in uno negativo. Una fase ribassista troppo accentuata del mercato obbligazionario creerebbe così le basi per la sua stessa scomparsa.

Secondo Ruskin, allo stato attuale, potrebbero tornare in gioco due fattori della vecchia scuola: per lo meno negli Stati Uniti c’è una confluenza di fattori inflazionistici, come l’impatto positivo che la maxi riforma fiscali Usa sta avendo sui salari, i barili del petrolio che stanno diventando più cari, il protezionismo latente e il dollaro debole. L’altro fattore è che gli aggiustamenti monetari della Federal Reserve e di altre banche centrali – ossia i piani di normalizzazione dei bilanci espansi a suon di iniezioni di denaro multi miliardarie nel sistema finanziario – potrebbero segnalare la fine della repressione finanziaria.

Questi due elementi potrebbero influire negativamente sui fondi e i portafogli che si basano sulle strategie a parità di rischio. Senza però provocare danni maggiori, secondo Ruskin: “Se i tassi dei bond continuano a crescere, farebbero abbastanza danni alle Borsa da compromettere le aspettative di crescita economica, sostenendo di conseguenza i bond. In questo modo “i ribassisti sancirebbero la loro stessa fine”.

Dollaro Usa non vale più lo status di riserva valutaria mondiale?

Allo stesso tempo se le pressioni inflazionistiche e le politiche monetarie più aggressive delle banche centrali (quantitative tightening) non cambieranno, scrive Ruskin, allora le settimane in cui sia azionario sia obbligazionario scendono di prezzo diventeranno molto più frequenti di quanto abbiamo visto dalla Grande crisi finanziaria a oggi”. Ed è un cambiamento a cui fondi e investitori farebbero bene ad abituarsi.

Gli economisti continuano a discutere su quanto sia alto il livello di Borsa e se siamo o meno in una bolla di mercato, mentre tra gli investitori cresce una certa paura per lo spauracchio rappresentato dal ritorno dell’inflazione e dall’incremento dei rendimenti Usa sopra la soglia di pericolo del 3%. Secondo l’analista della banca tedesca, tuttavia, i rendimenti del titolo del debito governativo americano di riferimento troveranno un’area di supporto difficilmente valicabile nei pressi del 3,03%, livello che equivale ai massimi di gennaio 2014.

In Borsa però nel frattempo il Dow Jones ha perso quasi 700 punti venerdì dopo un report governativo sul mercato del lavoro migliore del previsto che, evidenziando un incremento dei salari, ha alimentato i timori legati all’inflazione. Non un gran segnale quindi. Tuttavia, l’indice di riferimento si è comportato bene nel complesso negli ultimi tempi.

Il sentiment negativo in Borsa è continuato per la verità anche con l’inizio di questa settimana, con il Nikkei 225 che in Asia è calato del 2,75% e con gli indici europei che hanno viaggiano in rosso. In giornata Jerome Powell presterà giuramento come sedicesimo Presidente della Fed. “Molti si aspettano che vista l’anticipazione di un aumento dell’inflazione, Powell sarà costretto ad adottare un atteggiamento più aggressivo in materia di tassi di interesse“, dicono da eToro. E questo non piace ai mercati azionari.

Ma con questi mercati è meglio non dare nulla per scontato: “In genere, le aspettative di un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti sono accompagnate da un dollaro più forte e da un calo delle Borse. Tuttavia, nell’ultima settimana, il dollaro è rimasto piuttosto debole”. Se i mercati del reddito fisso e dell’azionario scivolano, logica vuole che a guadagnarci sia il dollaro. Cosa succede però se il biglietto resta fiacco? Si rischia una vera crisi, perché sarebbe la conferma di una mancanza di fiducia nella divisa Usa e che i giorni del dollaro prima riserva valutaria al mondo sono alle spalle.