In attesa dell’intervento del presidente cinese Xi Jinping martedì, ci pensa il ministero degli Esteri della Cina a soffiare sul fuoco della guerra commerciale. Secondo le parole riportate da Reuters e pronunciate da Geng Shuang, portavoce di governo, sono gli Stati Uniti i principali responsabili delle tensioni commerciali tra le due prime potenze economiche mondiali e alle condizioni attuali sarebbe impossibile intavolare colloqui.
Le dichiarazioni sono l’ennesima prova, dopo l’uscita del segretario Usa del Tesoro Steve Mnuchin di venerdì scorso, del fatto che non siamo più vicini rispetto alla settimana scorsa a una risoluzione economicamente e diplomaticamente pacifica della disputa commerciale tra Washington e Pechino. Mnuchin aveva parlato apertamente di guerra commerciale, spingendo in calo i listini azionari americani, con il Dow Jones che a un certo punto ha toccato punte al ribasso giornaliere del -3%.
A sorpresa i mercati valutari sono rimasti invece più calmi nonostante le frizioni crescenti tra Usa e Cina. Quanto a lungo può ancora durare questa situazione? È la domanda che si stanno chiedendo operatori e strategist di mercato. Anche se il presidente americano Donald Trump e le autorità cinesi continuano a minacciare di imporre dazi contro i prodotti importati dall’altro paese, l’indice della volatilità sul Forex misurato da JP Morgan (il Global FX Volatility Index) ha registrato tre cali settimanali di fila.
Presto però, avvertono gli analisti a Bloomberg, in caso di nuova escalation delle tensioni e implementazione dei nuovi dazi (quelli Usa potrebbero teoricamente vedere la luce effettivamente a fine maggio) il mercato dei tassi di cambio potrebbe perdere gli appigli e subire oscillazioni sempre più marcate.
La verità è che, anche se le armi a disposizione della Cina sono diverse, tra cui il ricorso all’opzione nucleare di svendere le migliaia di dollari di debito federale statunitense in suo possesso, difficilmente cadrebbero sul serio in tentazione. La liquidazione di 1.200 miliardi di dollari di titoli Treasuries Usa permetterebbe a Pechino di infliggere un duro colpo all’economia americana e allo stesso tempo permetterebbe di convertire il ricavato in debito denominato in euro, sterline britanniche, corona, dollaro australiano o peso messicano. In questo modo si impedirebbe un incremento indesiderato dello yuan.
La possibilità è reale dopo che il ministero del Commercio cinese ha parlato di “un insieme di misure di ritorsione completo” che vanno al di là del commercio. E il presidente Xi sa che non può limitarsi alle controffensive commerciali perché non può imporre lo stesso tipo di dazi di Trump, perché la Cina non compra abbastanza prodotti dagli Usa per poter arrivare veramente ai 100 miliardi di dollari di import che il governo statunitense minaccia di colpire.
Il problema di una misura drastica come la liquidazione di Treasuries Usa è che provocherebbe un crac dei mercati finanziari globali, senza però rivelarsi uno strumento efficace di “lotta” anti Usa.
All’inizio aprirebbe un buco nel mercato obbligazionario Usa proprio in un momento in cui Trump non ha grande spazio di manovra dal punto di vista fiscale. Il deficit Usa salirebbe alla cifra stratosferica di mille miliardi. Il contagio si espanderebbe a macchia d’olio anche nel settore del credito al consumo e dei mutui.
Ma in un secondo momento la Federal Reserve potrebbe contrastare la misura ricorrendo ad operazioni sul mercato aperto, come ricorda Geoffrey Yu di UBS. Se la banca centrale Usa è in grado di comprare tre mila miliardi di titoli governativi o bond legati ai mutui con il suo programma di Quantitative Easing, può anche rispondere alle mosse della Cina comprando tutto il debito liquidato.
Come ha osservato Jeffrey Gundlach di DoubleLine Capital, soprannominato da Barron’s “il nuovo re dei Bond”, la Cina non può sfruttare l’opzione nucleare come vorrebbe: “è più efficace come minaccia”, perché chiaramente rovinerebbe i piani alla Fed. “Se liquidano tutto, non avrebbero più la stessa leverage nei negoziati”.