Il dollaro Usa, in lotta contro la gravità
Una domanda fondamentale che ci fanno oggi molti clienti è quella relativa al destino del dollaro USA. È di certo una questione importante: il rendimento di qualsiasi portafoglio obbligazionario esposto alle valute di paesi sviluppati o emergenti è sempre strettamente collegato ai movimenti della maggior valuta di riserva del mondo.
La recente retorica dell’amministrazione Trump spinge per un dollaro forte, ma ciò confonde ulteriormente le acque, perché si scontra con l’orientamento protezionista mostrato in questi mesi, che storicamente favorisce un dollaro debole. Di seguito metteremo in evidenza le varie forze che a nostro parere indicano per il dollaro un futuro di maggiore debolezza.
Ascesa e declino della valuta USA
Fare previsioni, soprattutto riguardo ai mercati valutari, è un mestiere difficile. Gli operatori di mercato hanno più volte usato una varietà di approcci – a prima vista convincenti – allo scopo soppesare il fair value e l’andamento delle valute, per poi restare perplessi e frustrati di fronte agli esiti reali.
Sebbene ogni approccio abbia i suoi meriti, ognuno ha anche una certa tendenza ad avere maggior o minore rilevanza seconda delle diverse fasi di mercato e del ciclo economico. Ad esempio: cosa influenza di più le valute in un certo orizzonte temporale? La crescita o i differenziali dei tassi di interesse? L’attività di investimenti e commercio su scala globale, o i movimenti dei mercati del debito e azionari? E in che modo periodi di politiche monetarie straordinarie, o fasi di particolare timore o esuberanza del mercato, influiscono in tutto ciò?
Cerchiamo di rispondere a queste domande partendo da alcune considerazioni storiche. A partire dal 2001, il dollaro USA a cominciato un declino decennale nei confronti di un’ampia gamma di valute (declino brevemente interrottosi con la crisi finanziaria globale del 2008). Varie spiegazioni sono state date per la debolezza del dollaro durante quei 10 anni: il costante declino dei tassi di interesse USA a lungo termine, l’impennarsi del deficit commerciale statunitense (dovuto proprio al dollaro forte che caratterizzo gli anni ‘90), un deficit fiscale USA in rapida ascesa (causato dai tagli alle tasse e dalla spesa militare), una perdita di fiducia degli investitori a seguito di diversi scandali a Wall Street (Enron, Worldcom), lo scoppio della bolla tecnologica nel 2001, la diminuzione della percentuale di dollari USA nelle riserve di valuta estera mondiali.
Il declino del dollaro si è fermato improvvisamente nel 2011, ironicamente proprio quando Standard&Poor’s abbasso il rating del debito sovrano USA. Le paure del mercato riguardo l’integrità dell’euro e la crisi del debito dei paesi periferici dell’Eurozona diede inizio ad un’impennata pluriennale del dollaro USA. Il dollaro si mosse poi ancora verso l’alto dopo il Taper Tantrum del 2013, quando i rendimenti dei bond cominciarono a risalire a causa delle aspettative di un rialzo dei tassi da parte della Fed. Il picco di questo trend rialzista del dollaro si ebbe nel 2014-2015, quando l’improvvisa fine del super ciclo delle materie prime scalfì l’immagine di invincibilità della Cina, spingendo molti ad una corsa verso il dollaro USA.
Il punto di svolta si ebbe però con l’esito a sorpresa delle elezioni presidenziali del 2016. Nel 2017, infatti, il dollaro ha invertito la marcia e ha cominciato a scendere a mano a mano che l’euforia per i nuovi stimoli alla crescita (riforma fiscale e spese infrastrutturali) ha ceduto il passo alla retorica protezionista e allo stallo politico a Washington.
Un mosaico di fattori
A nostro parere sul dollaro soffiano diversi venti contrari, di tipo macro-economico e tecnico. Vediamo quali sono le forze che a nostro parere hanno maggiormente influenzato la valuta americana da un anno a questa parte. Se guardiamo il dollaro sotto la lente dei metodi di valutazione tradizionale, la valuta americana appare sopravvalutata.
Gli operatori di mercato usano vari metodi di valutazione per determinare se una valuta è sopravvalutata o sottovalutata. Crediamo che il tasso di cambio reale effettivo (che misura il tasso di cambio – ponderato per gli scambi – di una valuta rispetto ad un paniere di valute, rettificato per le differenze di inflazione) sia il più utile come indicatore sulla direzione di una valuta nel lungo periodo. Sulla base di questo indicatore, dunque, il dollaro appare un po’ sopravvalutato, soprattutto se analizzato tenendo conto conto dei persistenti deficit fiscali e di bilancio.
Il dollaro USA deve vedersela con altri mercati valutari più attraenti
I mercati emergenti stanno beneficiando molto della ripresa globale in corso. Il rimbalzo dei volumi di scambio globali e dei prezzi delle materie prime dopo il collasso del prezzo del petrolio nel 2014-2015 va a favore della loro ragione di scambio – il prezzo relativo di esportazioni e importazioni – e sostiene le prospettive di crescita di molti paesi emergenti. Molte economie emergenti si sono in gran parte stabilizzate, e a nostro parere sono ora più attrezzate che mai per assorbire eventuali shock. Crediamo infatti che il debito locale dei paesi emergenti sia l’area con le migliori opportunità per gli investitori.
Allo stesso tempo, il Pil dell’Eurozona sta crescendo al suo ritmo più rapido da 7 anni a questa parte, con potenziale per ulteriori miglioramenti. La dinamica di crescita è ampia, con la dipendenza dalle esportazioni nette che sta diminuendo grazie al rafforzamento della domanda domestica. Complessivamente vediamo uno scenario che, anche grazie anche al recedere del rischio politico in Europa, continuerà a favorire un euro forte.
Sottolineiamo inoltre altri due importanti fattori tecnici che potrebbero ulteriormente far salire l’euro:
- la possibilità che gli asset manager aumentino la loro esposizione sull’azionario e l’obbligazionario europeo;
- la possibilità che i gestori di riserve valutarie scelgano di comprare più euro a scapito del dollaro, invertendo un declino cominciato nel 2009.
I mercati valutari in questo senso sono un buon indicatore di cosa stanno facendo gli investitori a lungo termine. Se i gestori di riserve valutarie continueranno ad aumentare la loro quota di euro a scapito del dollaro, il rapporto euro/dollaro ne beneficerà.
Il dollaro non è più correlato, al momento, con alcuni importanti differenziali di tassi di interesse
Fino a prima del primo trimestre 2017, il livello dell’euro rispetto al dollaro era determinato, a nostro parere, soprattutto dal differenziale dei tassi di interesse forward. La correlazione tra questi due dati ha funzionato bene per anni, ed è ciò che ci ha spinto ad essere sottoesposti all’euro rispetto al dollaro nei nostri portafogli globali e internazionali.
Tuttavia, a inizio 2017 giungemmo alla conclusione che l’euro si sarebbe rafforzato rispetto al dollaro: questo perché il mercato stava sottovalutando i miglioramenti nei dati dell’Eurozona, e quindi anche il conseguente aumento delle esposizioni agli asset europei nei portafogli. E l’euro si è effettivamente apprezzato, nonostante un differenziale di tassi di interesse che avrebbe dovuto favorire il dollaro: questo ci ricorda come la crescita e i flussi degli acquisti di asset siano fattori di cui tener conto quando si determina il fair value di una valuta.
Fasi di inasprimento monetario da parte della Fed = dollaro forte? Non è detto
L’opinione comune è che i cicli di inasprimento della Fed siano fortemente correlati con un rafforzamento del dollaro. Ma i dati storici confermano solo in parte questo assunto. Ad esempio: dal dicembre 2015, il dollaro si è deprezzato del 4% mentre nello stesso periodo la Fed ha alzato i tassi di 150 punti base. La stessa dinamica è avvenuta anche nel 2004-2006: il dollaro si deprezzò del 7%, mentre la Fed alzo i tassi di 425 punti base. È bene dunque tener conto che il tightening della Fed sta avvenendo in un determinato scenario, in cui si prevedono rialzi dei tassi a breve termine anche in Gran Bretagna, Canada e nell’Eurozona.
La politica fiscale USA è positiva per la crescita, ma non sappiamo che effetti avrà a lungo termine
La riforma fiscale – che migliora la competitività delle aziende USA rispetto al resto del mondo – e l’innalzamento dei tetti di spesa dovrebbero a nostro parere favorire la crescita del PIL, e ciò a sua volta dovrebbe rafforzare il dollaro USA. Tuttavia, poiché le misure concrete per l’attuazione di queste riforme sono molto concentrate nel breve periodo, ci aspettiamo che la maggior parte dei benefici tenderanno a svanire dopo pochi anni.
La dura retorica protezionista offusca le prospettive di breve periodo del dollaro USA
L’annuncio di dazi indiscriminati su acciaio e alluminio, insieme all’atteggiamento aggressivo verso paesi come la Cina, ha fatto aumentare le probabilità di una guerra commerciale globale, e contribuisce a rendere più nebuloso il destino degli USA agli occhi del mondo. I libri di economia ci dicono che i dazi, di per sé, dovrebbero rafforzare la valuta domestica, ma è importante tener conto anche di quali potrebbero essere le contromisure dei maggiori partner commerciali degli USA. L’ultima volta che furono imposti dazi sull’acciaio (dall’amministrazione Bush nel 2002) il dollaro finì per deprezzarsi rispetto ad altre valute chiave, perché l’Unione Europea rispose a sua volta con delle barriere commerciali e il WTO giudicò la decisione americana come una violazione delle regole internazionali. In casi come questi, inoltre, politiche che sono percepite dai mercati come negative per il dollaro Usa possono generare un loop, per cui la minor domanda di asset denominati in dollari da parte degli investitori esteri si traduce in una pressione ribassista sulla valuta americana.
Conclusione
Come detto, azzardare previsioni è abbastanza futile. Tuttavia, come gestori che guardano ai fondamentali di lungo termine e che cercano di individuare opportunità sui mercati obbligazionari globali, riconosciamo come sia essenziale avere una visione chiara sui mercati valutari in particolare in relazione al dollaro USA. Questo spiega la recente evoluzione nel posizionamento dei nostri portafogli globali. Dalla prima parte del 2017 in poi, infatti, abbiamo ridotto la nostra esposizione sul dollaro USA, proprio perché abbiamo cominciato a ritenere sopravvalutata la valuta americana (grafico 9).
Guardando al futuro, non crediamo che i recenti rafforzamenti del dollaro rappresentino l’inizio di un trend destinato a permanere. A nostro parere il dollaro USA si dovrà arrendere alla forza gravitazionale di fattori tecnici e ciclici che favoriscono altre valute, come l’euro e alcune valute emergenti. Tra i fattori in grado di invertire questo scenario potrebbero esserci una crescita USA più forte del previsto – con un conseguente rafforzamento del dollaro – o una frenata dell’economia dell’Eurozona, che provocherebbe un indebolimento dell’euro. Anche uno shock improvviso nella crescita globale rimescolerebbe le carte ma, per ora, i dati ciclici ci dicono che si tratta di un evento poco probabile.