Le recenti classifiche su istruzione e occupazione ci vedono, entrambe, al penultimo posto in Europa. Solo a livello di posizione va invece “meglio” un’altra classifica: quella della tassazione, dove siamo sul podio.
L’ultimo report sul costo del lavoro in Europa firmato Ocse, il “Tax Wages“, illustra come in Italia le aziende paghino retribuzioni lorde elevate a fronte di uno stipendio netto nelle tasche dei lavoratori pari a circa la metà.
Stando ai dati Eurostat, il cuneo fiscale nel Bel Paese nel 2017 era pari al 47,7% (solo lo 0,09% in meno rispetto al 2016); peggio di noi troviamo solamente il Belgio (53,7%) e la Germania (circa 49,9%), mentre la media europea si attesta al 35,9%.
L’Italia è caratterizzato da un alto peso delle imposte e dei contributi previdenziali a carico del lavoratore; infatti, mediamente, per un lavoratore single italiano il costo del lavoro è pari a 56,980 dollari. Il 16,5% di questo importo è costituito dall’Irpef, mentre il 7,2% dai contributi.
Se consideriamo, invece, un nucleo familiare composto da quattro persone, tra cui due figli ed un unico percettore di reddito, il cuneo scende al 38,6% ma la media dei Paesi membri dell’organizzazione è del 26,1%.
A rendere però la situazione anche più allarmante rispetto ai Paesi che hanno un cuneo fiscale più elevato del nostro, è il livello dei salari.
In Italia, infatti, il rapporto tra salario e carovita è inferiore agli altri Paesi e gli stipendi sono fermi di fatto da un decennio, dovendosi inoltre scontrare con una tassazione crescente.
Utile, forse, potrebbe essere la reintroduzione della scala mobile, strumento economico di politica dei salari volto ad indicizzare automaticamente i salari in funzione degli aumenti dei prezzi, al fine di contrastare la diminuzione del potere d’acquisto dovuto all’aumento del costo della vita, secondo quanto valutato con un apposito indice dei prezzi al consumo, che fu tolta nel 1992 dal governo Amato.