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LA GUERRA E’ UN PESSIMO AFFARE

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Chiamiamola l’«excuse du jour» (N.d.T. La scusa del giorno). Da anni sentiamo una litania di spiegazioni sulla debolezza dell’economia. L’ultima è la minaccia di guerra con l’Iraq.

A parte l’aumento dei prezzi petroliferi, lo spettro della guerra (così si dice) ha creato una enorme incertezza che sta inducendo aziende e consumatori a rinviare progetti di spesa di un certo rilievo. Una volta eliminata questa incertezza ci sarà una decisa ripresa. Non contateci.

Dalla metà del 2000 l’economia americana è cresciuta al tasso annuo dell’1,3%. Alcuni trimestri hanno fatto registrare il segno positivo, altri il segno negativo e altri ancora hanno fatto registrare una sostanziale stagnazione (il tasso di crescita dell’ultimo trimestre del 2002 è stato appena dello 0,7%).

Ogni oscillazione della situazione economica ispira una nuova teoria. Il collasso delle dot.com (N.d.T. Le società che operano in Internet). Lo scoppio della «bolla» speculativa. Il trauma dell’11 settembre. Gli scandali delle grandi aziende e la perdita di fiducia degli investitori. E sempre: una forte ripresa è alle porte.

C’è un andamento che si ripete. Riguarda più la psicologia che l’economia. Preferiamo le spiegazioni temporanee ad una eventualità più sgradevole: che l’economia americana è alle prese con un lungo periodo di crescita modesta o di stagnazione. È meglio credere che, una volta risolti i problemi «temporanei», l’economia si riprenderà. Dopo i funerali delle dot.com le cose andranno bene. Se crolla la fiducia degli investitori, mettiamo in prigione gli imbroglioni delle grandi aziende e «riformiamo» il diritto societario.

La teoria della guerra con l’Iraq rientra nel quadro e trova ascolto nei piani alti. La settimana scorsa ha avuto l’appoggio della Federal Reserve. (In una sua dichiarazione la Fed ha detto che «determinati aspetti dei rischi geopolitici hanno secondo l’opinione generale indotto le aziende a limitare le spese e le assunzioni». Un «miglior clima economico» emergerà quando i rischi spariranno, stando a «quanto si aspettano la maggior parte degli analisti»). Ma ci sono due problemi.

Primo: i problemi temporanei spesso non sono temporanei. Gli scandali contabili non hanno ucciso la fiducia degli investitori. Sono stati i bassi profitti e le grosse perdite in Borsa. Forse le «riforme» possono curare il primo aspetto. Ma non possono curare i bassi profitti e la perdita di valore del portafoglio azionario. Nel terzo trimestre del 2002 i profitti delle imprese negli Usa sono stati inferiori del 10% al picco toccato nel 1997, secondo quanto dichiara il ministero del Commercio. Analogamente il crollo delle dot.com non è stata una battuta di arresto temporanea. Ha simboleggiato la crescente assenza di una innovazione commercialmente percorribile – e necessaria.

Oggi si pensa che una rapida vittoria sull’Iraq farà diminuire i prezzi petroliferi e l’incertezza. Forse – o forse no. Prendiamo in considerazione un rapporto degli economisti della Goldman Sachs. Dice che una guerra potrebbe far salire il prezzo del petrolio di 10-15 dollari al barile rispetto all’attuale prezzo che si aggira intorno ai 30 dollari. Ma nemmeno una rapida vittoria americana potrebbe far scendere il prezzo a 16-17 dollari al barile, sostiene il rapporto. L’Iraq non è in grado di aumentare rapidamente la produzione. E gli analisti dicono di aver sottovalutato i decrementi produttivi sul lungo periodo del Venezuela alle prese con uno sciopero nazionale. Anche nel caso in cui lo sciopero terminasse, il 15% della capacità produttiva potrebbe essere andata perduta a meno di «nuovi significativi investimenti».

Secondo: le spiegazioni temporanee ridimensionano i danni del boom degli anni ’90. Non è stata solamente una bolla speculativa. Le aziende hanno investito generosamente ipotizzando che ci sarebbe stata sempre una forte domanda. Ora le eccedenze produttive sono un dato normale (l’indice di utilizzazione della capacità industriale della Federal Reserve è di 75,4 rispetto ad una media di 81,5 nel periodo 1972-2001). I consumatori hanno speso generosamente grazie alla nuova ricchezza garantita dal boom della Borsa. Sia le aziende che i consumatori si sono pesantemente indebitati.

Tutto questo lascia ipotizzare un periodo di riduzione delle spese. Le aziende tagliano gli investimenti e i posti di lavoro. Gradualmente le eccedenze produttive diminuiscono e i profitti ricominciano a crescere. I consumatori rispondono al crollo delle azioni e alla crescente insicurezza del lavoro spendendo in maniera più avveduta. Entrambi cercano di ridurre i debiti.

In una certa misura questa logica avversa è stata attenuata: la Federal Reserve ha tagliato i tassi di interesse; il Congresso ha tagliato le tasse; i produttori di automobili hanno offerto le auto a rate a condizioni più favorevoli; i proprietari di case hanno rifinanziato il mutuo a tassi più bassi. E la logica rimane la stessa.

La situazione peserebbe poco se il resto dell’economia mondiale godesse ottima salute. In questo caso gli Stati Uniti si tirerebbero fuori dai guai con le esportazioni. Disgraziatamente Europa e Giappone sono entrambi economicamente moribondi. Una lezione del boom degli anni ’90 è che altri Paesi sono divenuti eccessivamente dipendenti dall’appetito americano per le loro esportazioni. Ora anche il commercio globale segna il passo. Il grosso pericolo è che la contemporanea debolezza in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti determini una sorta di circolo vizioso che si autoalimenta intensificando il pessimismo e creando una nuova ondata di crisi finanziarie.

Senza dubbio la prospettiva di una guerra con l’Iraq ha accresciuto l’inquietudine economica. Le aziende che affermano di aver rinviato i progetti stanno probabilmente dicendo solo una parte della verità. Quello che non dicono è che molti di questi progetti erano in ogni caso condannati a morte stante la debolezza del quadro economico generale.

Il quadro generale è quello che conta di più ed è un quadro a tinte fosche. Iraq o meno. È comprensibile che la gente sia favorevole ad una diagnosi che lascia più spazio alla speranza di una forte ripresa. E una forte ripresa potrebbe anche arrivare. È solo che le probabilità che ciò accada non sono particolarmente elevate.

© Newsweek
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

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