Mentre i Paesi membri dell’Ue sono ancora alla ricerca di un nuovo modello condiviso per il contrasto dell’immigrazione illegale, nell’ambito di una soluzione condivisa a livello comunitario, c’è chi cerca ispirazione in uno dei modelli più discussi degli ultimi anni.
L’Australia, infatti, è un Paese la cui costa è sterminata a confronto con quella mediterranea e non meno concreto è il rischio che si possano instaurare flussi d’immigrazione irregolare dai vicini Paesi dell’Asia meridionale. A schierarsi a favore di questo modello sono gli analisti Giuseppe Valditara, Giancarlo Blangiardo e Gianandrea Gaiani (direttore di AnalisiDifesa.it), che avevano trattato il problema nel libro “Immigrazione, la grande farsa umanitaria”.
I numeri dell’immigrazione verso l’Australia non hanno mai superato i 20mila arrivi, raggiunti nel 2013. Dopo questo picco il governo guidato dal liberale Tony Abbott ha optato per una politica di respingimenti assistiti in mare, laddove le navi della marina australiana intervenivano per riportare le imbarcazioni cariche di migranti verso i Paesi dalle quali sono salpate, dietro un accordo con questi ultimi. In particolare, si tratta di Sri Lanka e Indonesia.
“L’Australia non ha mai incoraggiato l’immigrazione clandestina esprimendo la tendenza a valutarla più come un fenomeno di criminalità da combattere”, scrivono gli autori, “perché lede gli interessi nazionali, che come un’emergenza umanitaria”.
Il punto più controverso riguarda il “confino” dei migranti irregolari, che scatta quando le imbarcazioni sopra le quali si trovano non siano in grado di reggere il mare o riescono a toccare terra australiana: in questi casi “gli immigrati illegali vengono trasferiti nei centri d’accoglienza nelle isole Manus (in Papua Nuova Guinea) e nell’isola–Stato di Nauru”.
La permanenza su queste isole impedisce ai migranti di sgusciare via dai controlli e di stanziarsi nel continente australiano – per quanto non siano mancate accuse di tipo umanitario sulla qualità dei centri d’accoglienza. Nauru e Papua Nuova Guinea “ricevono aiuti economici da Canberra e in cambio accettano di ospitare i richiedenti asilo i quali, se la loro richiesta verrà accolta, potranno vivere in queste isole pacifiche e prive dei pericoli che correvano nei loro Paesi d’origine, ma non potranno vivere in Australia”.
Lo sforzo, poi, è stato focalizzato anche nella comunicazione, che in ogni modo ha cercato di dissuadere i migranti sulle possibilità di accoglienza nel Paese: “Se viaggiate in mare verso l’Australia senza un visto, sappiate che non farete mai dell’Australia la vostra casa. Questo vale per tutti: famiglie, bambini, bambini non accompagnati, perso ne istruite e lavoratori specializzati.
Non ci saranno eccezioni”, affermava il generale Angus Campbell, oggi alla testa dell’esercito australiano, ma dal 2013 al 2015 comandante dell’operazione Sovereign Borders. Manifesti e spot lanciati nei Paesi di partenza, poi, mettevano in chiaro il medesimo concetto presso l’opinione pubblica: “No Way”, è lo slogan della campagna, “non c’è modo” di penetrare illegalmente nel Paese.
Finora l’Europa ha sempre rigettato la politica del respingimento in mare, né tantomeno ha sollevato concretamente l’idea di istituire centri di accoglienza localizzati fuori dall’Ue. “Nel maggio 2015 il premier Abbott sottolineò che «nel bloccare le imbarcazioni abbiamo anche salvato delle vite» aggiungendo che «l’operazione Sovereign Borders è una lezione che oggettivamente tutti gli Stati dovrebbero imparare ad applicare»”, proseguono gli autori, sottolineando che la risposta europea in merito “venne data alla portavoce Natasha Bertaud che precisò:
«La Ue applica il principio di non–respingimento. Non abbiamo intenzione di cambiare questo principio, quindi il modello australiano non sarà mai un modello valido per noi”.
Per il momento le proposte messe assieme dai leader europei continuano a non andare in questa direzione, che, al contrario, è apprezzata solo dalle varie declinazioni delle destre nazionaliste.