Le aspettative sono alte, fose troppo. Con il rischio di creare frustranti delusioni. Giovedì prossimo, l’amministratore delegato Giuseppe Morchio presenterà un piano di rilancio le cui linee sono state illustrate alle banche e al governo. Prende corpo una nuova Fiat che assomiglia sempre più alla vecchia: non a quella di Paolo Fresco (anzi, tutto l’opposto) e nemmeno a quella di Cesare Romiti che cominciò la grande espansione.
Sarà una Fiat più simile al gruppo industriale che i due fratelli, Gianni e Umberto, guidavano insieme, prima che arrivassero i rampanti condottieri, prima della grande crisi del 1980. Una Fiat che abbandona la finanza per tornare nelle fabbriche, a produrre auto, camion, bus, trattori. E venderli, perché se non recupera quote di mercato, l’intera operazione fallisce.
In termini tecnici si chiama ricentramento sul core business, o ritorno al mestiere se vogliamo adottare una formula latina. La Fiat di Umberto, del resto, parlerà più francese che americano, guarderà alla Renault o, meglio ancora, alla Peugeot piuttosto che alla General Electric (il mito di Fresco) o alla stessa General Motors. Il Lingotto ridimensiona i sogni coltivati a viale Marconi (quartier generale nei tempi d’oro) e gli Agnelli perdono la centralità che hanno avuto (anche grazie al ruolo chiave di Enrico Cuccia) nel capitalismo italiano. Un passo indietro per ricominciare. Verso dove?
L’EMORRAGIA. Si brucia liquidità per 1,1 miliardi l’anno. E il debito netto è risalito da 3,78 a 5 miliardi, consumando anche un po’ del ricavato delle cessioni. Non è affatto una stranezza: Toro, Fidis e Avio davano profitti, gli altri settori producono perdite. Il primo obiettivo, dunque, è bloccare il deflusso di sangue. Uno strumento classico è il taglio del personale: il piano prevede 10 mila posti di lavoro in meno (su 179 mila dipendenti) nel mondo intero. Solo mille, per lo più colletti bianchi, in Italia dove si farà ricorso ai prepensionamenti. Sarà duramente colpita l’India e l’americana Cnh (macchine agricole).
Altro risparmio dovrebbe arrivare dalla centralizzazione degli acquisti nella holding capogruppo, secondo lo schema già applicato in Telecom dopo l’arrivo di Tronchetti Provera. Verranno ridotte molte scatole cinesi che si sono riprodotte come funghi negli anni delle battaglie finanziarie. «Semplificare» è la parola d’ordine di Morchio che ha preso di petto il vecchio management, a cominciare dal capo di Fiat auto, Giancarlo Boschetti, con il quale i rapporti si sono fatti tesi.
IL CAPITALE. Le cessioni hanno creato risorse consistenti. Non bastano in assoluto, ma la Fiat ritiene che non ci sia una estrema urgenza per l’aumento di capitale che potrebbe essere rinviato al 2004, quando l’entrata in produzione dei nuovi modelli richiederà molta legna da gettare nella fornace. Per il momento, Morchio ha presentato alle maggiori banche creditrici (UniCredit, Sanpaolo, Intesa e Capitalia) l’ipotesi di raccogliere due miliardi soprattutto rinegoziando il prestito. Ha trovato l’appoggio pieno di Alessandro Profumo che punta molto sul nuovo corso (ma bisogna dire che UniCredit è la meno esposta). Delusi gli uomini del Sanpaolo secondo i quali ci vogliono almeno 3 miliardi, Intesa aspetta il piano industriale, Capitalia incrocia le dita.
I PRODOTTI. Tutti, governo compreso, condividono la scelta di tornare ai fondamentali. Del resto, Fiat è uno dei pochissimi gruppi italiani che merita di stare nella classifica delle global companies di Fortune. Grande enfasi sull’italian style da parte di Humberto Rodriguez, il brasiliano che deve rilanciare il marchio Fiat. Alcuni modelli nuovi o ridisegnati saranno basati su piattaforme in comune. C’è già l’esperienza positiva con Peugeot-Citroen (Phedra e Ulysses fabbricati in Francia, a Valenciennes) e c’è il nuovo suv costruito in Ungheria insieme a Suzuki (che fa parte di General Motors), più il modello large insieme a Opel (Gm) che uscirà da Mirafiori. I modelli Gingo che sostituiranno la Panda sono prodotti in Polonia. La nuova Lancia Ypsilon uscirà da Melfi.
Pomigliano d’Arco continuerà a sfornare le Alfa 147 e 156 che restano un successo e il marchio del Biscione si arricchirà di nuove spider e coupé accentuando il suo carattere sportivo. E Mirafiori, un tempo roccaforte produttiva della Fiat? A parte la large e Idea (il monovolume compatto), potrebbe andare allo storico stabilimento torinese la nuova city car il cui progetto deve essere ancora approvato, mentre continuerà a montare la Punto restyled (insieme a Termini Imerese).
GENERAL MOTORS. L’intera linea, dunque, è stata rinnovata e rimodellata. Ma che ne è di Gm? Per ora non partecipa all’aumento di capitale e anche per questo l’operazione viene in parte rinviata di un anno. Aumentano progressivamente le sinergie e le produzioni in comune, architrave industriale dell’accordo. La joint venture con Gm doveva rappresentare lo sbocco strategico nei disegni dell’Avvocato. Oggi, nella Fiat di Umberto, appare come un’alleanza essenziale, ma tattica. Il gigante di Detroit ha seri problemi finanziari (il debito del fondo pensioni, di 26 miliardi, è superiore al valore azionario che ammonta a 21 miliardi). La crisi allontana i grandi disegni. E a Torino, per ora, dovranno fare da soli.
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