La FED taglia i tassi solo di un quarto di punto, e i mercati reagiscono negativamente. Ma forse
qualcosa di simile sarebbe accaduto anche nell’ipotesi di quel taglio più aggressivo che molti auspicavano, o, peggio ancora, a fronte di un nulla di fatto. Non è dunque il caso di dare troppo peso ai movimenti a breve dei mercati, che comunque giungono dopo una lunga ed eccezionale galoppata nel caso dell’obbligazionario e un forte
rimbalzo per quanto riguarda i listini azionari: i pretesti per una pausa e per fisiologiche prese di profitto in questa fase sono infiniti e spesso coincidono proprio con le più attese decisioni delle Banche Centrali. Quella americana ieri ha voluto tenere la porta aperta ad almeno un ulteriore intervento prima di ricorrere alle cosiddette “misure non convenzionali” da accompagnare alle eventuali nuove riduzioni dei tassi. Forse è prevalsa l’idea di non voler
bruciare troppo in fretta le ultime cartucce rimaste, o creare eccessivi allarmi sul quadro congiunturale, sospetti che il mezzo punto di taglio avrebbe sicuramente alimentato (da qui l’idea che la reazione dei mercati sarebbe stata ugualmente negativa, almeno a caldo). Quanto al messaggio contenuto nel solito breve comunicato che accompagna le decisioni del FOMC, si è sostanzialmente avuta una replica di quanto già detto all’inizio di maggio; solo la diagnosi era un po’ diversa, allora si parlava di un quadro congiunturale deludente, incapace di riprendersi come previsto al termine del conflitto iracheno, stavolta di un’economia che “deve ancora mostrare una crescita sostenibile”, ma come allora questa dovrebbe alla lunga riemergere, grazie anche ad una politica monetaria “leggermente più espansiva” (a maggio era definita “espansiva”). Ma a parte queste differenze iniziali, il messaggio finale è il medesimo: “La probabilità, anche se piccola, di un dannoso e sostanziale calo nell’inflazione eccede quella di un suo rilancio dai già bassi livelli attuali. In definitiva, il Comitato ritiene che quest’ultima preoccupazione sia destinata a prevalere nell’immediato futuro”, un concetto analogo a quello espresso in maggio, sebbene allora si parlasse ancora in termini di “un bilancio di rischi ancora esposto verso quello della debolezza”.
Quanto ai dati economici resi noti ieri, trovano conferma le indicazioni giunte nelle ultime settimane: l’effetto tassi sostiene, anzi addirittura rilancia su livelli record l’investimento delle famiglie nel comparto residenziale, ma non riesce invece a smuovere l’attività delle imprese, visto che gli ordini di beni durevoli, al contrario di quanto atteso, sono continuati a calare anche in maggio. Analizzando nel dettaglio proprio questi, ad un –2,4% in aprile è seguito un altro –0,3% in maggio, una dinamica sfavorevole confermata anche nel caso dei beni d’investimento esclusi difesa e trasporti aerei (-0,5%, dopo un –2,6% in aprile); stavolta non ha nemmeno pesato il comparto auto (-0,1% soltanto, dopo il –3,5% di aprile) e il calo, relativamente generalizzato, non lascia affatto ben sperare per l’attività industriale del mese in corso. Le vendite di nuove case sono invece balzate ad un nuovo record storico, 1,157 mln di unità annualizzate, pari ad un +12,5% sul mese precedente e a un impressionante +18% rispetto ai livelli di un anno fa. Quanto alle vendite di case esistenti, sono anch’esse salite, ma di un ben più modesto +1,2% nel mese e +4,4% su base annua, battendo comunque le attese degli economisti. I prezzi medi di vendita sono lievitati del 2,2% nel mese, ma su base annua siamo su un tutt’altro che allarmante +7,1% che non giustifica affatto le psicosi di bolla speculativa. La discesa dei tassi finora ha favorito il settore, grazie al parallelo calo del costo dei mutui ipotecari e al boom delle domande di rifinanziamento (sebbene nell’ultima settimana queste siano calate di oltre il 10% dai livelli precedenti, sono ancora su livelli record, pari a 3.3 volte quelle registrate un anno fa), ma se i rendimenti obbligazionari a più lunga scadenza cominceranno a far fatica a scendere ancora, il meccanismo dei rifinanziamenti e del collegato beneficio sui consumi tenderà ad esaurirsi. Urge quindi un immediato riavvio dell’industria, con tanto di relativi investimenti e creazione di nuovi posti di lavoro; in caso contrario, il quadro rimarrà ancora precario e incapace di portare ad un rilancio uniforme e convincente dell’economia USA. Più che alla FED, che sta egregiamente facendo il suo dovere, l’attenzione andrebbe posta anche su variabili esogene quali il prezzo del petrolio, che per una scusa o un’altra non scende come auspicato (stavolta sono state le scorte USA, in improvviso calo, a provocare l’ulteriore risalita delle quotazioni), o la “geopolitica”, che torna a creare qualche legittima apprensione vista la piega che sta prendendo (dal nostro punto di vista era comunque scontata) la gestione angloamericana dell’Iraq post Saddam Hussein. Per Bush e soprattutto Blair si preannunciano tempi duri sotto il profilo del consenso.
*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim