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TLC, FATTA PULIZIA, CHI INVESTE VUOLE CERTEZZE

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SÌ, le telecomunicazioni stanno uscendo dal tunnel, ma una volta fuori dovranno fare i conti con un ambiente radicalmente diverso da quello che hanno lasciato prima che scoppiasse la «bolla» tecnologica. «Quel motore di crescita che è stato un aumento costante e a due cifre della domanda non tornerà più», dice Francesco Caio. Lui, che in Italia ha dato vita alla Omnitel, ha preso e poi abbandonato bruscamente la guida della Olivetti, è filato d’amore e d’accordo con Vittorio Merloni come amministratore delegato del suo gruppo e infine ha fatto il salto da manager a imprenditore creando la Netscalibur, da poco più di tre mesi ha un nuovo posto di lavoro. Cable & Wireless, il colosso britannico delle telecomunicazioni che più di altri ha sofferto della crisi, lo ha chiamato come amministratore delegato il 4 aprile scorso: esattamente due mesi dopo ha annunciato un piano duro, fatto di tagli, azzeramento del dividendo per il 2003, ma soprattutto una radicale ristrutturazione del modo in cui Cable & Wireless si dovrà muovere. Il tutto alla luce di alcuni paradigmi che – spiega – sono cambiati in modo totale.

Ingegner Caio, il suo nuovo gruppo fa due terzi del fatturato come operatore tradizionale e un terzo offrendo servizi ad altri operatori. Visto da là, che cosa succede oggi nel mondo delle telecomunicazioni?
«Succede che questa sta diventando un’industria matura. Fino a cinque anni fa poteva godere di una crescita strutturale del volume d’affari a due cifre, mentre oggi è entrata in una fase di maturità nella quale la crescita nel suo complesso non c’è più. Nel medio termine la prospettiva di aumento del fatturato non può essere diversa dall’aumento del Pil».

Che cosa è cambiato nella domanda?
«Il mercato è ancora fortemente dominato dalla voce, fissa o mobile che sia, e proprio nella voce fissa – il punto di origine di tutte le tlc – trova oggi il segmento più grande in assoluto, ma in declino. Se fino a qualche tempo fa questo declino era stato in qualche modo controbilanciato da una fortissima espansione della voce mobile, adesso anche nel mobile la crescita si è ridotta, sta andando verso la sua naturale maturità: una volta che abbiamo due telefonini o due sim a testa che possiamo fare di più? Invece i settori che crescono, tipicamente i servizi per le imprese attorno al protocollo Internet, aumentano anche molto ma partono da una base limitata».

Quindi l’industria stringe la cinghia…
«Non solo. La nuova situazione fa sì che mentre la variabile competitiva degli Anni 80 e 90 è stata la velocità con cui si costruivano le reti, oggi questa variabile diventa la capacità con cui si servono i clienti. E’ un cambio di paradigma epocale nel settore perché oggi di reti ce ne sono in abbondanza, mentre la capacità di portare innovazioni e tecnologie verso il cliente non è scontata. Nelle aziende significa che il marketing comincia a contare molto, non basta più la competenza ingegneristica».

Risparmi e tagli comunque li stanno facendo tutti, no?
«Proprio perché è cambiato il settore ed è scoppiata la bolla finanziaria è cambiato un altro paradigma: per anni una delle variabili fondamentali dell’industria era la capacità di spendere tanto, con tanto investimento in attivo fisso, mentre oggi diventa la capacità di controllo delle risorse finanziarie. La mancanza di crescita lascia molto meno spazio per rimediare a investimenti sbagliati».

Nei singoli mercati nazionali gli incumbent, gli operatori ex monopolisti, continuano ad avere enormi quote di mercato. Hanno davvero interesse a innovare per soddisfare nuovi bisogni della clientela?
«E’ vero che dopo vent’anni di regolamentazione il profitto resta a chi controlla il cliente-consumatore, ossia a chi ha il controllo della rete di accesso locale e a chi sta nella telefonia mobile. Ma detto questo, marketing e innovazione sono importanti perché i prodotti tradizionali calano e ci sono delle concorrenze tra piattaforme».

Si spieghi meglio.
«Oggi c’è un incentivo delle reti fisse ai clienti che si spostano verso la larga banda non perché questi signori sono diventati dei filantropi e pensano che io e lei con la larga banda lavoriamo meglio per il futuro dell’Europa, ma perché devono trovare in qualche modo un elemento di differenziazione rispetto alla piattaforma mobile, che attira sempre più il mercato della voce. Ma è vero che per alcuni servizi, se non si introduce davvero la concorrenza nel settore – il che significa che gli incumbent devono avere un rapporto con la rete di accesso più controllato e più trasparente – l’innovazione per il consumatore è in qualche modo compromessa. E’ chiaro che chi ha il controllo della rete di accesso può restare adagiato senza preoccuparsi delle esigenze del cliente, se non per una protezione minima del fatturato e dei margini legata alla concorrenza di altre piattaforme».

Lei ha da poco compiuto i suoi primi cento giorni alla guida di Cable & Wireless. Che situazione ha trovato e come vuole cambiarla?
«La sfida è quella del cambiamento. Far ritrovare a un’azienda una sua identità e ragion d’essere che si è persa negli anni in cui si sono inseguite delle chimere. Sono perfettamente cosciente che non sarà un’esplosione della domanda a fare il turnaround di Cable & Wireless. Ma questa è un’azienda che oggi fattura circa sei miliardi di euro e che negli ultimi quattro anni ne ha spesi dodici, dico dodici, all’inseguimento di un’infrastruttura fisica globale per i servizi Ip».

Senza successo, visti i conti…
«La cosa sorprendente è che dopo aver inseguito questi clienti globali – che poi pesavano solo per il 7% del fatturato – il 40% del giro d’affari è in Gran Bretagna e il 60% è ancora voce».

Che cosa farete per porre rimedio alla situazione?
«Abbiamo deciso di concentrarci sulle cose che sappiamo fare, allineando in modo credibile obiettivi, situazione di mercato e competenze che abbiamo a bordo. Questa è un’azienda che senza dubbio ha forti competenze nei servizi Internet, nella fornitura di servizi di tlc a grandi e medi gruppi in Gran Bretagna – dove siamo secondi solo a Bt – e nella capacità di gestire rapporti costruttivi con i governi di piccoli Paesi, come quelli dove operiamo nei Caraibi o in Medio Oriente. Invece abbiamo deciso di uscire dagli Stati Uniti, dove abbiamo giocato il gioco delle infrastrutture, ma siamo rimasti sottodimensionati».

Voi chiudete l’esercizio al 31 marzo. La prima trimestrale del 2003 mostrerà già gli effetti della ristrutturazione?
«No, questo è un piano di trasformazione profonda del gruppo, che deve tornare alle sue radici e riguadagnarsi quote di mercato. Ma per vederne l’effetto sui numeri ci vorranno tempi lunghi».

Torniamo all’industria. Sui mercati finanziari sembra essere tornata una certa fiducia nelle tlc e anche le emissioni obbligazionarie delle Telecom non fanno più troppa paura. La finanza adesso ha una visione realistica del settore?
«E’ molto difficile da dire visto che ci sono così tante tipologie di attori in questa industria. Siamo al termine di tre anni di difficilissima pulizia e disillusioni e quindi c’è un riallineamento delle posizioni, ma gli investitori sono ancora lì, attorno alla piscina e vogliono sentire a che temperatura è l’acqua prima di tuffarsi».

Quindi la visione è realistica o no?
«Si va verso una situazione di maggiore razionalità e concretezza, ma ci vorranno un certo numero di trimestrali che vanno nella stessa direzione prima di poter giungere alla conclusione che c’è un vero miglioramento. Più in generale l’industria delle tlc si sta scrollando di dosso quegli elementi di specificità che un po’ illudendosi si era attribuita in gran parte da sola negli anni della bolla, e – anche sul mercato finanziario – torna ad essere valutata in linea con il business in generale. Adesso, anche per le telecomunicazioni, contano i numeri e i fatti, non i progetti altisonanti e le idee».

Questo significa anche che l’innovazione rischia di restare bloccata…
«Senza dubbio. Lo spavento che i capitali si sono presi nei confronti dell’innovazione impiegherà un certo tempo a sparire. E non è un caso che a riaprire il mercato siano state le aziende più solide. Le valutazioni degli incumbent sono quelle con cui il mercato si trova oggi più a suo agio. Poi però arriverà un ribilanciamento per tutti».

L’Umts, la telefonia mobile di terza generazione decollerà o no?
«L’Umts è stato e rimane il simbolo della follia della bolla. I numeri spesi per le frequenze, specie in Gran Bretagna e in Germania – lo dico da due anni – non trovano riscontro nella possibilità di ritorni finanziari. Le reti cominciano a esserci e serviranno perché in Europa c’è una domanda che continua a crescere, così l’Umts darà un’ulteriore accelerata alla migrazione della voce dal fisso al mobile perché mettendo a disposizione più capacità farà calare i prezzi del mobile. Ma siamo ancora ben lontani dalla diffusione di massa delle videotelefonate. Anche questo è un segmento come gli altri, dove bisogna allineare domanda, fatturato e investimenti. Non si possono fare investimenti da miliardi di euro per un servizio che per il momento è di nicchia e per il quale non ci sono nemmeno i terminali pronti».

In un’industria matura si va verso un consolidamento come logica prevede o le barriere nazionali resteranno alte?
«Io sono molto vicino storicamente a un esempio dove le barriere nazionali non hanno funzionato e dove oggi c’è un gestore come Vodafone che ha superato queste barriere. Si va di sicuro verso il consolidamento, proprio perché ormai le tlc non sono diverse da altri settori».

Si fonderanno anche i grandi operatori nazionali?
«Probabilmente è ancora presto per parlarne, ma se uno guarda agli Usa vede che la grande At&t che si è tenuta la telefonia a lunga distanza di fatto è diventata una piccolissima At&t. Quelli che hanno mantenuto l’accesso locale invece si sono lentamente aggregati e si sono trasformati in giganti come Verizon. La natura delle reti suggerisce che ci sono dei vantaggi ad andare verso queste aggregazioni. Magari gli incumbent con la propria rete fissa resteranno locali e magari i fornitori di accesso a Internet – vedi Tiscali che è già europea – si muoveranno su base transnazionale».

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