Società

CAPITALISMO ITALIANO ARRETRATO

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L’Italia spende poco in ricerca e sviluppo. E ancor meno spendono le imprese
private italiane. Ogni anno, la spesa totale (pubblica e privata) in R&S
dell’Italia è pari al 5 per cento di quanto viene investito negli Stati
Uniti, è il 30 per cento della spesa tedesca, il 47 per cento di quella
francese e il 56 per cento di quella britannica.

In termini assoluti l’Italia
investe meno che la Corea del sud, paese che ha un reddito nazionale che è
circa un terzo. Se si considerano gli investimenti in R&S in rapporto al Pil,
l’Italia investe in un anno l’1,05 per cento contro valori tripli per gli
Stati Uniti e il Giappone e valori doppi per i grandi paesi europei. La Svezia
e la Finlandia sono, rispettivamente, a quota 3,7 e 3,11.

Come si compone
l’investimento in ricerca e sviluppo in Italia? Se consideriamo il decennio
1990-99 notiamo che la quota attribuibile all’industria ha oscillato tra il 41
e il 44 per cento mentre quella riconducibile al settore pubblico è risultata
tra il 49 e il 53 per cento; quella finanziata da fonti estere è stata
compresa tra il 5 e il 6 per cento. La quota dell’industria in Francia è in
media pari al 53-54 per cento; in Germania 65-66 per cento.

La Svezia, la Finlandia e la Germania sono i paesi che presentano il maggior
numero di domande di brevetto per milione di abitanti (rispettivamente 375,
298 e 258 nel 2000); anche i Paesi Bassi e la Danimarca hanno raggiunto valori
discreti. L’Italia presenta invece solo 62 domande per milione di abitanti,
contro 120 della Francia; 109 del Regno Unito e 144 degli Stati Uniti. Questi
ultimi sono il più importante esportatore mondiale di tecnologia. Il Regno
Unito, la Svizzera, il Belgio, la Svezia sono tra i pochi paesi europei con
saldi positivi. Mentre l’Italia presenta un saldo negativo di circa 500
milioni di dollari.

L’importazione di know how, di brevetti, di invenzioni
ecc. dall’estero può rappresentare un valido canale per acquisire tecnologia
avanzata. L’Italia, tuttavia, ha situazioni deficitarie anche negli scambi di
beni high tech. L’incidenza dei prodotti ad alta tecnologia sulle esportazioni
totali di manufatti è stata pari in Italia negli ultimi anni pari in media al
14,7% contro una media UE pari al 24%, e valori rispettivamente del 22,5 per
la Germania, del 27,6 per la Francia e del 36,8 per il Regno Unito. La
composizione geografica dei saldi commerciali bilaterali dell’Italia sembra
quella tipica di un Paese in via di sviluppo intermedio. Gli unici saldi
positivi per i beni high tech si registrano, tra i paesi avanzati, con la
Spagna e, tra i paesi emergenti, con i Nic americani (Brasile e Messico) e i
paesi africani.

Come si spiega? Un primo fattore è la nostra specializzazione produttiva. E’
aumentata la specializzazione tecnologico-commerciale dell’Italia nei settori
tradizionali e nella meccanica strumentale, dove predomina la piccola impresa
e dove minore è l’intensità tecnologica. Allo stesso tempo si è
approfondita la debolezza nei settori nei quali prevalgono le grandi
dimensioni e sono forti le economie di scala, e nei settori a maggiore
contenuto tecnologico.

Su un totale di 4,8 milioni di imprese censite
dall’Istat ben 3,7 milioni hanno meno di 250 addetti e rappresentano il 76,5
per cento dell’occupazione manifatturiera. Nessun altro paese avanzato ha un
tale predominio di piccole imprese. La questione dimensionale, tuttavia, non
spiega completamente l’anomalia italiana: a parità di dimensione le imprese
italiane investono in innovazione meno rispetto alle concorrenti estere. La
BMW, negli anni passati, ha investito in ricerca e sviluppo molto di più
(circa il doppio) di quanto abbia fatto la Fiat.

Nei settori high tech operano
negli Stati Uniti e in altri paesi avanzati, tantissime piccole imprese, le
start-ups, che contano meno di 10 dipendenti ma investono in innovazione
risorse elevatissime.
Le imprese italiane hanno beneficiato nella prima metà degli anni novanta di
una svalutazione del cambio reale pari al 27 per cento, hanno così recuperato
competitività trascurando ben più difficili e costosi investimenti in
ricerca e sviluppo. La spesa in R&S rispetto al Pil diminuisce in Italia
proprio a partire dalla metà degli anni novanta.

L’Italia ha approfondito nel decennio scorso la propria presenza in nicchie
settoriali abbastanza dinamiche. Questo fenomeno è stato visto per anni come
segno di vivacità e flessibilità, ma andrebbe invece considerato come indice
dell’incapacità sistemica di sviluppare e consolidare industrie a maggiore
contento tecnologico. La minaccia cinese, di cui parlano Tremonti e la Lega,
è in buona parte legata a questa miopia delle imprese italiane: poco sforzo
innovativo, forte affidamento sulla competitività di prezzo e scarsa
diversificazione merceologica.

I settori di relativo vantaggio dell’industria nei paesi europei più
importanti sono chimica e farmaceutica, aerospazio, automazione industriale e
alcuni segmenti della microelettronica e delle telecomunicazioni. L’Italia è
l’unico tra tutti i paesi UE a presentare un persistente deficit commerciale
nella chimica e nella farmaceutica e l’unico grande paese europeo a non avere
un’industria chimica e farmaceutica di grande dimensione, integrata
verticalmente e orizzontalmente.

Nell’automazione industriale, invece,
l’aumento della specializzazione italiana ha carattere generale e non solo di
nicchia. La valutazione positiva dell’andamento del settore in Italia si
associa tuttavia a difficoltà dei nostri produttori in alcuni mercati
(Germania, Giappone e Svizzera). Grave è anche la debolezza dell’industria
italiana dell’aerospazio, settore caratterizzato dalla presenza di “campioni
nazionali” in quasi tutti i grandi paesi, con forti legami con il settore
militare. Estremamente fragile è anche il settore italiano dell’elettronica
(unica eccezione la StMicroelectronics nei chip). L’Italia ha perso produttori
di eccellenza (Olivetti) e quote di mercato e ha sperimentato un forte
processo di despecializzazione. Insomma si accresce nel tempo la nostra
diversità dall’industria europea.

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