Martedi’ la Federal Reserve americana non ha tradito le aspettative e non ha ritoccato i tassi d’interesse dei Federal Funds, fermi all’1 per cento. Malgrado gli ordinativi all’industria nel mese di marzo siano cresciuti del 4,3 per cento, più delle aspettative, a conferma che la ripresa americana resta stabilmente orientata su un vigore crescente. Le attese degli analisti si appuntano ora sui nuovi posti di lavoro creati in aprile, dato che sarà reso noto venerdì.
La sorpresona dei 308 mila occupati in più di marzo, tre volte l’attesa degli analisti, aveva da una parte fatto esultare la Casa Bianca. Dall’altra, ha fatto predire a parecchi analisti che inevitabilmente Alan Greenspan ne avrebbe tratto l’impressione, se il dato sarà confermato ad aprile, che il tempo di ritoccare all’insù i tassi d’interesse si avvicini, in presenza dei primi segni di “surriscaldamento” dell’economia Usa.
La media delle previsioni dei 63 maggiori istituti americani di analisi economiche raccolta da Bloomberg e’ attestata su 168 mila nuovi occupati ad aprile, ma con punte fino a 250 mila da parte di J. P. Morgan. Ma fino a giugno di ritoccare i tassi non se ne parla, e c’è da scommettere, secondo i più, che Greenspan rinvierà ancora. Quel che però da noi continua maledettamente a non risultare chiaro, è il fondamento che consente agli Stati Uniti questa politica di sostegno a una crescita (il pil è aumentato del 4,3 per cento nel primo trimestre) sideralmente maggiore della nostra, con tassi d’interesse e disoccupati metà dei nostri.
E allora vale la pena di ripeterlo e ripeterlo ancora, fino alla noia, in attesa della trimestrale di cassa promessa ora entro il prossimo 11 maggio, e del Dpef prima delle elezioni europee rispetto al quale il premier e il ministro dell’Economia hanno preso solenni impegni ormai tre settimane fa, senza che nel frattempo agli enunciati siano seguiti i fatti.
Che cosa c’entra il nostro Dpef con la Fed? C’entra. Perché i pilastri su cui si basa l’alta crescita americana e i bassi tassi sono essenzialmente due, proprio quelli che da mesi si indicano come basi della “svolta” più volte promessa. Meno imposte e più profitti. Tagli energici e concentrati nel tempo alle aliquote sul reddito, e maggiori profitti per le imprese provenienti da maggiore produttività.
E’ questo, in sintesi, il vangelo americano di cui Fed e Casa Bianca sono i profeti. E se i condoni qui da noi hanno fatto incassare 28 miliardi di euro invece del nulla o quasi che prediceva l’opposizione, se di riffa o di raffa si è ritrovato il modo di rimettere in carreggiata le cartolarizzazioni che sembravano incagliate anche nel 2004 per 4 miliardi di euro, se il ragioniere generale dello Stato meritoriamente ha posto le premesse per far scattare il “tagliaspese” in caso di scostamenti della spesa pubblica, tutto ciò e magari anche qualche riordino nelle vecchie leggi-incentivo che non funzionano dovrebbe essere “selvaggiamente” dedicato a finanziare un massiccio taglio delle imposte.
Ma è davvero così pericoloso indebitarsi? Certo, se i signori banchieri centrali di Francoforte avessero dato una manina, invece di tenere i tassi al doppio di quelli americani, sarebbe stato meglio. Perché grazie agli 11 successivi tagli di Greenspan e a un sistema bancario efficiente e concorrenziale (non come il nostro, penultimo in Europa per tassi praticati alla clientela, solo la Grecia ha tassi più alti dei nostri, dicono i dati resi noti ieri dalla Camera di commercio di Milano) le famiglie americane hanno potuto aumentare dal 2000 al 2003 del 50 per cento il loro ricorso ai mutui immobiliari, che oggi valgono 2.300 miliardi di dollari; del 33 per cento i crediti al consumo, fino alla quota attuale di 2 mila miliardi di dollari.
Se ci si somma l’indebitamento per carte di credito e debito, si arriva a una cifra che a fine 2003 ha superato i 9 mila miliardi di dollari, quasi il 90 per cento del pil Usa. Bella forza, indebitarsi così è pericoloso, si ribatte in Europa. E invece no. Perché gli asset delle famiglie americane a sostegno del debito, cioè il prezzo di valutazione attuale dei loro immobili e lo stock dei loro portafogli finanziari, si è rivalutato più di quanto è cresciuto il debito nel frattempo. E il patrimonio delle famiglie americane ha un valore che oggi è superiore a quello che aveva toccato quattro anni fa, prima che esplodesse la bolla Internet.
Verso dove si è diretta, la liquidità liberata alle famiglie dai tagli alle imposte di Bush? In una forte crescita della domanda interna, della spesa in consumi. Soprattutto in beni durevoli, quelli destinati a durare più di tre anni, mobili, elettrodomestici, automobili. La quota di pil americano trainata dai consumi interni è salita negli ultimi cinque anni di tre punti, dal 68 al 71 per cento, e l’aumento si deve quasi per intero ai beni durevoli, che da soli “pesano” ormai per il 10 per cento del pil americano, raddoppiando la quota in un decennio.
Sapete perché? Perché i prezzi dei beni durevoli sono scesi spettacolarmente, grazie all’elevatissima produttività. Mentre l’indice generale dei prezzi Usa saliva complessivamente del 20 per cento nell’ultimo decennio, i prezzi dei servizi crescevano del 31 per cento, quelli dei beni non durevoli (abiti, cibo, benzina) sono saliti meno dell’inflazione, del 17 per cento. Ma quelli dei beni durevoli, nel frattempo, sono diminuiti addirittura del 15 per cento. Da otto anni, grazie agli immensi guadagni di produttività che si registrano nel settore, scendono ininterrottamente tra il 2 e il 3 per cento annuo.
E non è solo in maggiori consumi, che si sono riversati i maggiori redditi degli americani. Se nel 1989 solo il 31,6 per cento di loro deteneva titoli sui mercati finanziari, a fine 2001 erano il 52 per cento. Oggi sono il 55. E sempre più si sono diretti verso “strumenti di mercato” a sostegno delle proprie pensioni, come i Lifetime Savings Accounts, i “fondi 401”, gli Individual Retirement Accounts.
Se Bush sarà rieletto, la promessa è di agevolare l’investimento in strumenti di mercato di metà dell’attuale aliquota contributiva che grava sulle buste paga, negli Usa un già modestissimo 12,4 per cento del salario lordo. Perché i mercati finanziari vivono nel breve di bolle e di frenate, ma nel medio-lungo periodo garantiscono rendimenti superiori al 2 per cento annuo riconosciuto dalla Social Security pubblica.
Persino nel ventennio peggiore del mercato finanziario Usa, quello 1929-48, il rendimento medio annuo fu del 3,35 per cento. E se prima dello scandalo Enron l’indice Dow era a 9.735 punti, oggi è a 10.400. E da che dipende l’alto rendimento dei titoli finanziari? Dai profitti attesi delle imprese. Che in questi anni sono sostenuti dalla crescita dell’Information technology.
La quale ha un altro merito “democratico”: se consente da un lato forti innovazioni di processo e di prodotto “labour saving” – di qui le polemiche sulla “jobless recovery” – dall’altro, per le caratteristiche stesse dell’informazione e della sua immaterialità, rende molto più bassa l’“appropriazione schumpeteriana” dei profitti da parte dell’imprenditore innovatore, e si spalma invece molto più decisamente in prezzi bassi ai consumatori di quanto sia capitato con le altre rivoluzioni tecnologiche. Come dimostra uno studio fresco fresco del grande William Nordhaus, che forse nel nostro governo qualcuno dovrebbe leggere.
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