(WSI) – L’Iraq non è tutto, anzi potrebbe persino passare in second’ordine rispetto ad un altro fronte: quello dell’Arabia Saudita.
Il mondo apre gli occhi dopo l’attacco (con relative uccisioni e sequestri di un gruppo di residenti occidentali) sferrato lo scorso fine settimana da uomini di Al Qaida contro il complesso residenziale Oasis di Khobar, nella zona orientale saudita dove si concentra la produzione petrolifera del Paese. Il bilancio è stato di ventidue morti, ma il fatto significativo è che l’attentato segue di un mese quello compiuto nella città portuale di Yanbu, sede (non a caso) della più grande raffineria saudita e dove vennero uccisi altri sei occidentali. E non basta.
Si teme infatti che questi due attacchi non siano stati altro che la prova generale di qualcosa di ben più grave da realizzare in futuro. Secondo fonti anonime di «intelligence» riportate dal «Times» di Londra, nel mirino di Al Qaida ci sarebbero tutti i centri petroliferi sauditi nonché il sistema di collegamenti tra Arabia Saudita e Bahrein. Esistono insomma le premesse che si avveri quanto Magdi Allam ha scritto nel suo ultimo libro «Kamikaze made in Europe» (Mondadori, 2004). Bin Laden, scrive Allam, «ha investito una fortuna stimata in 300 milioni di dollari per attribuirsi una statura internazionale come imprenditore del terrore, sfruttando il fanatismo islamico per conseguire l’obiettivo strategico della conquista del potere in Arabia Saudita».
In altre parole, Bin Laden è convinto che «tramite il controllo della più sacra delle terre dell’islam e delle maggiori riserve petrolifere del mondo, egli potrà imporre la sua leadership incontrastata sull’insieme del mondo musulmano e condizionare pesantemente le sorti dell’economia internazionale». A tal fine riuscire a mettere le mani sull’oro nero diventa per Bin Laden un obiettivo di grande priorità, tale da porre le basi per scacciare gli «infedeli» (Washington e l’Occidente) da un’area del mondo che, secondo il credo del nuovo integralismo, ha ricevuto da Allah il petrolio come dono per tutti coloro che gli sono fedeli e che vanno compensati per le umiliazioni subite negli ultimi secoli.
Per raggiungere tale obiettivo occorre però prima destabilizzare l’Arabia Saudita, e in prospettiva detronizzare la monarchia, della cui famiglia Bin Laden, anch’egli saudita, è acerrimo nemico. Il compito non è facile: si tratta di abbattere una grande oligarchia familiare composta da alcune migliaia di parenti o addirittura, calcolando i cugini di terzo grado, da circa 50 mila persone.
La prima vittima – travolto da un colpo di Stato di radicali – dovrebbe quindi essere il vacillante regime saudita, ormai da tempo in bilico fra la richiesta di appoggio americano e i suoi presunti legami con il fondamentalismo. Perché nessuno esclude che Osama abbia amicizie all’interno del clan e continui a ricevere dal suo Paese una parte del denaro di cui ha bisogno.
L’amministrazione Bush sostiene che la centrale della rete di finanziamento di Bin Laden è stata ideata e gestita da un imprenditore saudita, Wael Hamza Jalaidan, con sede a Gedda. A seguito dei fatti dell’11 settembre essa non ha subito grandi cambiamenti. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite sui finanziamenti di Al Qaida pubblicato nell’estate del 2002, dopo l’attentato al World Trade Center all’organizzazione sono giunti dall’Arabia Saudita 16 milioni di dollari. Ciò induce a ritenere che in Arabia Saudita Bin Laden può ancora contare su un vasto gruppo di sostenitori, in maggioranza uomini d’affari di primo piano.
La guerra al terrorismo ha pertanto aperto più fronti di attrito. Prima dell’11 settembre l’Arabia Saudita non era solo il paese arabo più vicino a Washington, addirittura la dinastia degli Al-Sa’ud era in cima ai legami di amicizia con la famiglia Bush. Ma dopo i tragici eventi delle Torri Gemelle i rapporti tra regno saudita e Stati Uniti hanno subito profondi cambiamenti.
L’urgenza per Washington è lanciare l’intelligence sulle tracce dei sospetti, ma Riad stenta a collaborare e fa resistenza ad indagini che sfiorano la famiglia reale. Alla base della crisi c’è proprio la questione dei fondi sauditi che arrivano ad Al Qaida. Secondo Robert Baer, ex agente della CIA in Medio Oriente e autore nel 2003 del saggio «Sleeping With the Devil», «gli americani hanno considerato per molto tempo l’Arabia Saudita come una costante in Medio Oriente, una fonte di greggio a buon mercato, di stabilità politica, di favorevoli condizioni per fare affari. Ma dopo l’11 settembre si sono accorti che si tratta di una nazione governata da una famiglia reale che funziona sempre meno e che ha finanziato movimenti di militanti islamici all’estero nel tentativo di proteggersi da loro in casa».
In questo quadro, il petrolio – o meglio il suo prezzo mandato alle stelle – potrebbe, secondo la strategia di Bin Laden, diventare l’arma con cui prendere alla gola tutto l’Occidente e con cui al contempo suscitare la grande rivincita delle masse islamiche contro il nemico occidentale esterno e contro i moderati filo-occidentali all’interno. La prospettiva di tale ricatto inquieta il mondo intero e in particolare rinforza l’esigenza avvertita da tempo dall’amministrazione americana di essere sempre meno dipendenti dal greggio saudita.
Per questo Washington si sta creando alternative e ritiene la Russia nella condizione di poter sostituire un giorno l’Arabia Saudita come principale esportatore di energia. Ma questo momento è ancora lontano e nel frattempo un attentato di successo alla produzione o al trasporto di petrolio saudita – ritengono gli analisti – potrebbe causare effetti simili a quelli che provocò la rivoluzione iraniana del 1979, quando il prezzo di un barile di greggio arrivò a toccare gli 80 dollari.
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