L’obiettivo di “portare a zero” le esportazioni di petrolio dell’Iran, da parte dell’amministrazione Usa, potrebbe favorire un ulteriore rialzo del prezzo del greggio. Da inizio anno il Brent ha già guadagnato il 33%; secondo Oxford economics ci sono probabilità che i prezzi possano crescere ancora “in modo significativo” dato che “nel breve termine è probabile che l’impatto sull’offerta sorpassi l’incremento di produzione”. Secondo una nota a firma degli economisti John Payne e Gabriel Sterne, il restringimento del mercato petrolifero in seguito all’estromissione dell’Iran, potrebbe portare il prezzo a quota 100 dollari. Al momento il Brent si trova a quota 72 dollari.
Se questa previsione dovesse concretizzarsi alcuni Paesi esportatori di greggio potrebbero trarne i frutti migliori, fra questi: Nigeria, Norvegia, Arabia Saudita, Russia ed Ecuador, sostiene Nomura. A farne le spese, di converso, sarebbero Paesi importatori le cui bilance correnti siano sotto pressione o che comunque abbiano sofferto di deprezzamenti delle proprie monete nazionali. Nomura inserisce in quest’ultimo gruppo India, Ucraina e Turchia. Per l’Italia, importatore netto di petrolio, l’incremento dei prezzi del greggio contribuisce negativamente alla fattura energetica e, di conseguenza al calcolo del Pil. Nel 2018 la fattura energetica ha pesato del 2,3% sul prodotto interno lordo, con 40,2 miliardi di euro. Il rincaro dei prezzi petroliferi, inoltre, incide sui prezzi erodendo il potere d’acquisto delle famiglie e i consumi.
La svolta in politica estera americana, con il giro di vite sulle esportazioni dall’Iran, dunque potrebbe colpire l’Italia in una fase di crescita già molto debole. Dal primo maggio non solo l’Italia, m anche Grecia, Cina (inclusa Taiwan), India, Turchia, Giappone e Corea del Sud, non potranno più godere delle esenzioni alle sanzioni Usa inflitte ai Paesi che importano petrolio dall’Iran.