Prima di dare un giudizio sulla situazione politica italiana, e sul riaffacciarsi (anche dal punto di vista semantico) di classici corsi e ricorsi, fatti di concertazioni, verifiche e rimpasti, il politologo Angelo Panebianco ritiene che si debba gettare uno sguardo alle recenti elezioni del Parlamento europeo. “Una prova disastrosa – dice – almeno dal punto di vista simbolico, con le impressionanti percentuali di non votanti e con l’affermazione, in alcuni paesi, di partiti apertamente contrari all’Unione”.
Ma di quelle elezioni è rilevante il carattere di consultazioni nazionali di medio termine, che “anche stavolta hanno punito i partiti dei premier. Non vale per Zapatero in Spagna e per Karamanlis in Grecia, da pochi mesi al governo e ancora in ‘luna di miele’ con gli elettori. Ma in tutti gli altri casi, compresa l’Italia, è andata così. Il caso più clamoroso è quello della Spd di Schroeder, che ha perso drammaticamente consenso mentre i Verdi, che pure fanno parte della coalizione governativa, lo hanno visto aumentare”.
E ora, raggiunto un compromesso sul trattato, il massimo realizzabile nelle attuali condizioni, “non è chiaro quale sarà, nell’Europa dei venticinque, la struttura del comando. Sembra difficile che il vecchio asse franco-tedesco possa ancora conservare il suo ruolo, ma è altrettanto vero che non si vedono alternative, mentre continuano a pesare importanti divisioni, in particolare sulla guerra e sul rapporto con gli Stati Uniti. La grande incognita riguarda, più che la governance, il governo da cui quella discende”.
Passando alla situazione italiana, le cose non appaiono meno complicate. A chi, come Massimo D’Alema, afferma che “la destra non ha più la maggioranza del paese, e quindi bisogna cominciare a preparare il nuovo governo dell’Italia”, rispondeva sul Corriere di ieri il professor Giovanni Sartori. Pallottoliere alla mano (“sono notoriamente pignolo”) ha dimostrato che la situazione è, tutt’al più, di pareggio.
Anche Panebianco pensa che “un conto è la realtà e un conto la propaganda. Ma comunque da quelle elezioni esce male Silvio Berlusconi. Non ha capito che, una volta al governo, non poteva più funzionare l’antipolitica che aveva funzionato nel ’94. Quell’esperienza era stata troppo breve perché gli si potesse chiedere conto dei risultati, e poi c’era stato il lungo periodo dell’opposizione, che ben si accorda con l’antipolitica. Ma dopo tre anni chi ti ha votato pretende fatti. Naturalmente sarebbe ingiusto dimenticare la grande gelata internazionale dell’11 settembre e i centomila motivi per cui in Italia è complicatissimo agire. Ma vorrei fare tre esempi importanti.
Come mai siamo ancora alle prese con la riforma delle pensioni (parlo ovviamente di una seria riforma, non di quella debole e annacquata ora in cantiere), e come mai non è stata fatta nel primo anno, quando la forza del governo era intatta? Secondo esempio. Come mai non è stata fatta una seria riforma della giustizia? Quella in discussione, a mio avviso, assomiglia a una sentenza suicida: è velleitaria, non risolve i grandi nodi, non attua la separazione delle carriere”. E poi, prosegue Panebianco, c’è “la cosiddetta riforma costituzionale, ovvero una buona idea affogata in mezzo a molte sciocchezze.
L’ottima idea è quella del rafforzamento del premier, che può significare un grande strappo in positivo rispetto a tutta la tradizione parlamentare italiana. Dallo Statuto albertino fino all’attuale Costituzione repubblicana, infatti, abbiamo sempre avuto un primo ministro debole rispetto alle fazioni parlamentari. Ma ecco che anche quella buona idea viene ammazzata attraverso uno pseudofederalismo confusionario, un primo ministro che può sciogliere la Camera bassa se non ne ottiene più la fiducia, mentre il Senato rimane saldo al suo posto e soprattutto ha il controllo su una serie di materie su cui la Camera non ha modo di intervenire. Se passasse la riforma prefigurata, gran parte della politica nazionale sarebbe espropriata dal Senato.
Semplicemente assurdo. Senza contare che nessun sistema federale bicamerale al mondo funziona così. Non si capisce a chi si siano ispirati”. Non ha giovato al governo, secondo Panebianco, la politica degli annunci, perché “un premier dotato di una maggioranza forte, come quella di Berlusconi, non deve fare annunci, ma annunciare le cose già fatte. E si è determinata una frantumazione della maggioranza, nella quale riemergono il vecchio linguaggio, le vecchie formule, le ‘verifiche’. E gli ‘scambi’ all’interno della maggioranza, su deleghe e federalismo. Ma bisogna vedere che cosa si scambia. Non è solo un problema di etichette.
Un conto è dire: diamo alla Lega un federalismo accettabile, ragioniamo sui suoi costi e garantiamo al paese che siano accettabili: insomma, rendiamo ‘gradevole’ e positiva per il paese questa concessione alla Lega. Altro è dire: facciamo il federalismo comunque, anche se andiamo incontro a grandi contraccolpi, per esempio da parte della burocrazia romana. Ammesso, poi, che quello scambio si realizzi. Per ora esistono solo colloqui riservati del premier con i singoli alleati e non sappiamo in che cosa si tradurranno. Ma se il premier è indebolito, riprendono il sopravvento le differenze ‘antropologiche’ della politica, le incompatibilità, per esempio, tra Lega e Udc”.
Subito dopo i risultati elettorali, dalle colonne del Corriere della Sera, Panebianco aveva indicato nel disagio dell’Italia moderata i segni di una nuova frattura tra nord e sud, “nel senso che c’è un centro-sud che continua a trovare una rappresentanza in An e Udc, mentre il nord ha reagito andandosene al mare. Nel 2001, il successo nazionale di Forza Italia aveva ricomposto quella frattura. Ma la sua leadership non ha trovato, come avrebbe dovuto, all’interno del suo stesso corpo le mediazioni necessarie ed efficienti tra esigenze molto diverse, come sono quelle del nord e del sud. E se gli elettori del sud hanno traslocato verso le formazioni che sembrano rispondere meglio a quelle esigenze, il nord è rimasto disorientato”. La sua funzione di garante della coalizione, Berlusconi “la mette in gioco quando dimostra di non saper monitorare l’azione dei suoi ministeri.
Come mai non si è accorto dell’inefficienza plateale del ministero della Giustizia? E’ come se nel premier ci fosse una suprema disattenzione per ciò che il suo governo concretamente fa. Aveva promesso una rivoluzione thatcheriana: non solo la riduzione delle tasse, ma anche il ridimensionamento drastico della burocrazia e del numero delle leggi”. Panebianco salva “l’azione del ministero dell’Istruzione, perché ha funzionato Letizia Moratti, un ministro energico con una sua visione delle cose da fare. Così come, nel precedente governo di centrosinistra, aveva funzionato Umberto Veronesi nella Sanità. Ma la ‘deburocratizzazione’ non c’è stata, così come non c’è stato il ridimensionamento dei lacci e lacciuoli statalisti, e le corporazioni sono sempre fortissime. Succedeva anche nel centrosinistra, che però non pretendeva di fare la rivoluzione thatcheriana. E’ la coalizione di centrodestra ad aver vinto alle politiche del 2001 sull’apertura al mercato e sulla riduzione del ruolo dello Stato”.
“Uniti nell’Ulivo non è una forza politica”. Sul versante dell’opposizione, in ogni caso, le cose non vanno molto meglio. Panebianco vede nella lista Uniti per l’Ulivo tutti i limiti “di qualcosa che non è forza politica. E’ un’alleanza elettorale, che si dividerà con ogni probabilità alle regionali. Un’aggregazione più stabile avrebbe avuto tutt’altro impulso da una vittoria netta alle europee, se cioè avesse superato la mera somma dei partiti aggregati per l’occasione.
Ma se da un punto di vista strettamente numerico il loro risultato non è cattivo, tenuto conto del fatto che è stato ottenuto in un sistema elettorale proporzionale, sono andati male da un punto di vista politico: non hanno intercettato i voti degli scontenti di Berlusconi e non sono riusciti ad arginare la sinistra massimalista. E il vero vincitore delle elezioni è Bertinotti”. In parallelo, la Margherita ha perso consensi e, se Prodi sarà il prossimo candidato premier, rischia di essere ancora una volta un “professore senza partito”.
Ma Panebianco pensa che “non è affatto detto che sia proprio lui il futuro candidato”, e che il richiamo prodiano a concentrarsi sul programma sia solo rituale, “perché, come è noto, i programmi in questo paese non contano nulla. La coalizione di centrosinistra ha una sola possibilità di andare al governo, se l’avversario farà abbastanza errori da permetterglielo. Se il centrosinistra vincerà per il ‘suicidio’ degli avversari, le differenze programmatiche saranno smussate, almeno per i primi anni, come è successo per il governo Berlusconi”.
Ma, conclude Panebianco, “se Berlusconi si indebolisse ancora, e tenuto conto della batosta subita dalla Margherita, penso che aumenterebbero le pressioni per far fuori il maggioritario e passare a un proporzionale con un più blando premio di maggioranza”. Uno scenario temibile, “perché il maggioritario, a mio parere, ha dato grandi vantaggi di chiarezza e di semplificazione. Ma ha fallito perché non ha consentito vere ricomposizioni, né a destra né a sinistra. Dopo dieci anni abbiamo ancora un sistema altamente frammentato, che oggi favorisce chi accusa il maggioritario di essere una camicia di forza che pretende di tenere insieme chi insieme non dovrebbe stare.
Ma sarebbe, quel ritorno, una sconfitta per il paese, perché si tornerebbe all’immobilismo e al cambio di governo ogni sei mesi. E sarebbe impossibile attuare le politiche di medio termine e le grandi riforme che l’Europa ci chiede, prima tra tutte quella delle pensioni”. C’è chi pensa che quelle riforme, con i loro contenuti oggettivamente impopolari, siano più facili per il centrosinistra. Panebianco non è d’accordo: “I governi di centrosinistra hanno più possibilità di fare patti col sindacato sulla politica dei redditi o sui contenimenti salariali. Ma nel caso di riforme strutturali questo non vale. In Inghilterra c’è voluta la Thatcher, e poi Blair ha completato l’opera”.
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