La firma del Memorandum of Understanding fra Cina e Italia, lo scorso marzo, ha riportato al centro del dibattito opportunità e dubbi sulla cosiddetta Belt and Road Initiative (Bri), il progetto infrastrutturale avviato nel 2013 dalla presidenza di Xi Jinping. Gli obiettivi alla base dell’iniziativa sono molteplici, non tutti di natura strettamente economica. Di sicuro, si tratta di un progetto il cui costo complessivo è imponente: le stime vanno dai 1.000 agli 8.000 miliardi di dollari. Il progetto comprende una “belt” una serie di infrastrutture terrestri (sei corridoi) e una rotta marittima che dalla Cina raggiungerebbe l’Europa interessando anche i maggiori porti italiani. Sotto il profilo strettamente economico, il massiccio investimento cinese punta a utilizzare in modo più ambizioso (e, forse, redditizio) le grandi riserve di valuta estera che la Cina possiede sotto forma di Buoni del Tesoro americani a basso interesse; allo stesso tempo, le infrastrutture permetteranno un più facile accesso ai mercati di sbocco, a tutti beneficio delle esportazioni di quei prodotti che la Cina produce in sovracapacità, come cemento e metalli. Rispetto al piano originario, la Nuova via della Seta, nome con il quale la Bri è nota in Italia, ha allargato le sue ambizioni dal solo cuore eurasiatico pianificando infrastrutture anche nell’Artide, in Africa e in America Latina. Le critiche non sono mancate negli ambienti diplomatici europei: nell’aprile 2018 il quotidiano tedesco Handelsblatt aveva rivelato che 27 su 28 ambasciatori dell’Ue a Pechino avevano firmato un documento nel quale la Nuova via della Seta era descritta come una sfida al libero scambio e un progetto ad uso delle aziende foraggiate dallo stato cinese (solo l’Ungheria non aderì). Meno di un anno più tardi il nuovo governo italiano prendeva la guida nell’avallo della Bri, divenendo il primo Paese del G7 a concordare un’intesa con la Cina sul progetto.
La via terrestre della Bri
Nota con il nome di Silk Road Economic Belt (o, semplicemente, “Belt”), la cintura terrestre della Nuova via della Seta, è una “risposta ai problemi dell’economia domestica cinese e ai suoi obiettivi di politica estera”, conclude uno studio dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), “la Cintura si adatta bene anche all’evoluzione del concetto di sicurezza in Cina, che sottolineano il suo conseguimento attraverso la cooperazione economica”. Le principali direttrici della Belt passano dall’Asia Centrale e dall’Asia Meridionale (figura in basso). L’Asia Centrale è il principale ponte via terra attraverso il quale si snodano i due principali corridoi della Cintura, che a loro volta collegano la Cina con i mercati dell’Europa e del Medio Oriente. Di particolare interesse è il potenziamento delle linee ferroviarie Eurasian Land Bridge e Khorgos – Aktau, entrambi di passaggio in Kazakistan e che hanno già ricevuto 27 miliardi di dollari in investimenti cinesi.
L’altro grande progetto (il più ampio in assoluto) è il China–Pakistan Economic Corridor (Cpec), il corridoio principale della Belt nell’Asia Meridionale e che connette la Cina con l’Oceano Indiano. Il Cpec prevede la costruzione, fra le altre cose, di autostrade e ferrovie, oltre che infrastrutture per il trasporto dell’energia (oleodotti e gasdotti), il valore stimato degli investimenti si aggira intorno ai 62 miliardi di dollari (stima del 2017).
Secondo il Sipri in alcuni casi è corretta la narrativa di Pechino, che presenta gli investimenti nella Bri come di mutuo beneficio per tutte le parti coinvolte (win-win), data la carenza di infrastrutture in varie parti dell’Eurasia. “La domanda è in che misura gli interessi e i driver della Cina si sovrappongono a quelli delle realtà degli stati coinvolti”.