Lo scorso maggio il vicepremier Luigi Di Maio aveva affermato che la flat tax sarebbe stata realizzabile “recuperando i 300 miliardi di euro di grande evasione fiscale” e non “aumentando l’Iva” perché “sarebbe da folli”.
Il caso dell’Ungheria, Paese che ha introdotto la flat tax nel 2011, insegna che questo sistema fiscale non può non essere compensato da strumenti in grado di spostare le fonti di gettito e di assicurare una riscossione puntuale. Da un lato, l’amministrazione Orban accompagnò la riforma a una serie di stringenti controlli anti-evasione, dall’altro ha spostato l’imposizione sul fronte indiretto portando l’aliquota Iva più alta al 27%. Per Budapest la strategia ha funzionato perché, in seguito ai controlli, la platea dei cittadini che pagano imposte sui redditi si è allargata da 1,5 milioni (2011) ad oltre 4 milioni. Ma soprattutto, l’Ungheria ha potuto attirare investimenti esteri grazie all’aggressiva politica fiscale e la conseguente crescita economica ha aiutato il gettito fiscale (è stato inferiore solo nell’anno successivo all’introduzione della flat tax).
Le differenze di partenza fra Italia e Ungheria, però, sono evidenti e mettono in dubbio la percorribilità di una aggressiva riduzione delle imposte sui redditi. Un elemento è costituito dal costo dello stato sociale. L’Ungheria spende per la sanità un ammontare pari al 5,1% del suo Pil (2017); l’Italia il 6,8%. In protezione sociale Budapest destina il 14% del Pil, l’Italia il 20,9% (dati Eurostat). Dal 2011, anno di introduzione della flat tax, al 2017 la spesa pubblica sul Pil, in Ungheria, è diminuita dal 49.5% al 46,9% sul Pil. In secondo luogo, in Italia pesa il fenomeno dell’evasione fiscale, e il fatto che una seria lotta non giova politicamente a chi la promuove.
Ufficialmente il programma della Lega sulla tassa unica, recita: “Tolleranza zero per qualsiasi forma di evasione ed elusione fiscale e drastico aumento di controlli e sanzioni, compreso il ritiro della patente e del passaporto fino a 5 anni”. Il contratto di governo, invece, riduce il terreno d’azione ai pesci grossi: “sul piano della lotta all’evasione fiscale, l’azione è volta a inasprire l’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale, per assicurare il “carcere vero” per i grandi evasori”.
Di fatto la lotta all’evasione, fatta di strumenti di controllo pervasivi e sanzioni severe – proprie di Paesi come la Russia o l’Ungheria, entrambe dotate di flat tax – non sembra fra le priorità del governo. Resta da vedere, insomma, se gli annunci del vicepremier Di Maio sui 300 miliardi da recuperare dall’evasione, saranno destinati a trovare una seria attuazione.