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LA YALTA DELLE BANCHE

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La Yalta delle banche ha gli intensi colori agostani di Santa Maddalena, un piccolo paese della Val Casies, chiusa tra la Pusteria e l’Ortles. Ai confini delle Dolomiti per tre giorni, a fine agosto, Antonio Fazio, Ivo Tarolli, il senatore dell’Udc che gli ha fatto da scudiero in tante battaglie, e Gianpiero Fiorani, vulcanico amministratore delegato della Popolare di Lodi, si sono ritrovati all’Hotel Quelle.

E mentre le famiglie si intrattenevano passeggiando tra i vasti boschi che circondano l’albergo, i tre discutevano di banche, assetti e fusioni che dovrebbero cambiare la faccia del sistema. O, almeno, modificarla in modo rilevante. Domenica 29, poi, al terzetto si è aggiunto Cesare Geronzi, anche se giusto il tempo per una cena consumata poco lontano, nel ristorante dell’Hotel Rainer di Sesto Pusteria, ed è stata l’apoteosi.

Insomma, il risiko che sta per partire nel sistema creditizio italiano è stato concepito tra la quiete dei monti più belli del mondo, ha in Fazio lo stratega e in Geronzi e Fiorani i suoi estensori. Tutto ciò, almeno negli auspici, senza ricorrere a guerre e spargimenti di sangue, senza cioè suscitare la reazione degli esclusi – Sanpaolo, Unicredit e Intesa – e magari offrendo loro altre contropartite. Alla fine, però, il risultato sarà simile a quello della fine degli anni 90. Assetti di potere, rapporti con la politica, ricadute sui grandi gruppi industriali: tutto rivoluzionato.

Si comincerà con l’affondo di Capitalia sull’Antonveneta, un progetto di cui si parla da tempo, ma rimasto nel cassetto per le disavventure del banchiere romano alle prese con le vicende Cirio e Parmalat. Adesso però che le procure hanno allentato la presa e l’oblio dei media sta inesorabilmente producendo i suoi effetti, quel piano è ora di ritirarlo fuori. Anche perché gli azionisti della banca padovana, Benetton in testa, più il pugno di privati racchiuso nella finanziaria Deltaerre, hanno deciso di vendere. E gli olandesi di Abn Amro, primi azionisti sia a Padova sia a Roma, intravedono la possibilità di un’aggregazione che li farà diventare l’istituto straniero più importante del Paese.

Ma siccome l’appetito vien mangiando, e il contesto politico dopo la pace con Palazzo Chigi è favorevole, il matrimonio da due potrebbe allargarsi a tre: Antonveneta, Lodi e Capitalia. Con Geronzi gran demiurgo (nonostante gli olandesi si illudano di poter contare di più in termini di governance) e Fiorani braccio armato.

Se si vuole andare oltre, non ci si mette molto a intuire le manovre che portano fino al sancta sanctorum della finanza italiana: gli assetti di Mediobanca, della Rcs MediaGroup (Corriere della Sera) di cui Capitalia è fresca azionista, su fino alle Generali. «Ma una nuova stagione di scontri» dice a Economy un banchiere di lungo corso che vuol restare anonimo «sarebbe negativa per tutti. È molto più logico che ci si metta intorno a un tavolo per cercare di conciliare i piani di ciascuno».

L’obiettivo è avere tre grandi istituti.
Il fatto che non ci sarà battaglia campale non significa però che non si avranno vincitori e vinti. Anzi. La lunga trattativa che si prepara ha una cabina di regia tutta romana, in cui sta assisa quella coppia di ferro del credito, Fazio-Geronzi, ora tornata a nuovi splendori. Tutti gli altri protagonisti, a partire dall’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, anche lui desideroso di combinare un’aggregazione importante, in un modo o nell’altro dovranno venire a patti con loro.

Sulla imminente rivoluzione creditizia non influiscono, però, solo la politica o le logiche di potere. A spingere in quella direzione ci sono anche forti ragioni industriali. Spiega Massimo Caputi, consigliere del Monte dei Paschi di Siena: «Non credo che nei prossimi anni avremo ancora sei banche italiane grandi e medio-grandi, ma al massimo tre. Ci sarà spazio per istituti di dimensione sovranazionale, oppure molto più piccoli, fortemente concentrati sul proprio territorio».

La svolta è stato l’addio di Tremonti.
Come spesso succede in Italia, le premesse del terremoto in arrivo sono politiche. All’origine di tutto c’è la caduta del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, le cui conseguenze sui rapporti di forza fra le banche sono state immediate: un vero trionfo per il governatore e i suoi amici, una perdita di potere e di terreno per gli avversari. E il banchiere più amico di Fazio è notoriamente Geronzi, che sembra essersi scrollato rapidamente di dosso – o per lo meno aver allontanato – i guai giudiziari, ricominciando a tessere la sua tela di aspirante Enrico Cuccia del XXI secolo.

Gli accorpamenti migliorano i risultati.
Il primo obiettivo, specie ora che comincia a dare i primi frutti sui conti del gruppo la cura dell’amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe, è quello di crescere per poter competere alla pari con le banche più grandi. Così, è bastato che Antonveneta decidesse di cedere qualche decina di sportelli in Sicilia (dove è forte la rete di Capitalia attraverso il Banco di Sicilia) perché partisse un tam tam che le smentite ufficiali non sono riuscite minimamente a fermare: tutti hanno capito che l’offensiva del banchiere capitolino nei confronti dei grandi gruppi del Nord è iniziata, e con essa è cominciato anche il rimodellamento bancario degli anni Duemila.

E che i tempi siano maturi per un riassetto generale lo pensa anche Franco Masera, amministratore delegato di Kpmg, consulente di alcuni fra i più importanti gruppi italiani: «Aumentare le dimensioni è una delle strategie principali che le banche italiane possono mettere in atto per migliorare i loro risultati. L’avvio di una fase di accorpamenti è nella logica delle cose».

Vista da questa angolazione, la vicenda di Antonveneta è molto significativa, ma rappresenta solo l’antipasto di una grande abbuffata. La banca del Triveneto ha chiuso il 2003 con qualche difficoltà di troppo, considerato soprattutto che opera in una delle zone più ricche del Paese, e i suoi azionisti – fra i quali Abn Amro, ma anche Benetton, Lloyd Adriatico, il finanziere Emilio Gnutti, Francesco Micheli e altri – da tempo non filano più d’amore e d’accordo.

Diversi tra loro potrebbero aver voglia di uscire, lasciando spazio, appunto, alla banca di Geronzi. Ragioni industriali e finanziarie che giustificano l’incorporazione ce ne sono in quantità. Anzitutto, le due banche hanno in comune una forte presenza del colosso olandese Abn Amro (che ha il 12,7% di Antonveneta e il 9% di Capitalia).

Bipielle completa l’invasione del Nord.
Ma soprattutto l’aggregazione ha senso da un punto di vista industriale. Capitalia è molto presente nel Centro-Sud ma è quasi del tutto assente nel Nord; due anni e mezzo fa ha acquisito il controllo di Bipop Carire, che le ha portato risorse e redditività, ma non è stato sufficiente a metterla al livello delle grandi, sia sul piano delle dimensioni sia su quello della copertura del territorio.

Ma a ben guardare neppure l’acquisto di Antonveneta garantirebbe a Capitalia le dimensioni e la diffusione sperate. Per questo Fazio e Geronzi sono intenzionati ad aggiungere subito alla banca padovana anche la Popolare di Lodi. E infatti di questa eventualità si parla con insistenza da giorni. Anche l’istituto guidato da Fiorani ha bisogno di crescere e nella Yalta dolomitica si è proprio discusso del fatto che le tre aziende di credito, insieme, costituirebbero un colosso in grado di competere anche all’estero.

Molto meglio che farsi mangiare alla prima occasione da un concorrente più grosso e magari dichiaratamente ostile. Anche se la tanto attesa riforma del risparmio, se mai arriverà, non sembra scalfire di una virgola i poteri di interdizione del governatore.

Infatti il principale elemento di incertezza non è rappresentato dalle reazioni dei concorrenti, ma dalla disponibilità dei capitali necessari a portare a termine un’operazione del genere. «Vorrei proprio sapere dove li prende oggi Capitalia i soldi per comprarsi Antonveneta e magari anche la Popolare di Lodi» osserva un analista. L’ipotesi di un’offerta pubblica di acquisto (Opa) su Antonveneta, che pure è circolata, sembra azzardata.

È vero che i conti di Capitalia sono nettamente migliorati negli ultimi tempi, ma un’Opa richiederebbe un consistente aumento di capitale che la gran parte dei soci farebbe fatica a sottoscrivere. Più probabile che stia per cominciare una serrata discussione sui concambi in vista di una fusione. Insomma, carta contro carta, perché di soldi non ce ne sono.

Come risponderanno gli altri gruppi al grande gioco appena iniziato? Considerando che la Banca Intesa di Giovanni Bazoli e Corrado Passera è naturalmente in posizione defilata per via della difficile opera di ristrutturazione portata avanti negli ultimi anni, gli occhi sono puntati soprattutto su Profumo e su Unicredit.

Ci sono indiscrezioni che parlano di una possibile competizione con Capitalia su Antonveneta, ma lo scenario disegnato finora lascia ritenere assai più verosimile che il giovane banchiere, forte dei riconoscimenti che gli vengono dall’estero per essersi sottratto a partite puramente di potere come quella per il Corriere della Sera, decida di non muovere un dito.

Del resto, se l’operazione ha la benedizione di Fazio, a che servirebbe mettersi di traverso? Meglio prepararsi a chiedere qualche compensazione al tavolo delle trattative, tanto più che alla fine di questo percorso potrebbe esserci perfino una fusione fra Unicredit e Capitalia.

Che gli effetti di tutto questo rimescolio bancario arrivino fino a Mediobanca e alle Generali e da qui ai pochi grandi gruppi industriali rimasti in Italia, è quasi scontato. Il vertice di Mediobanca è considerato piuttosto debole, investito com’è dai contrasti fra gli azionisti Capitalia e Unicredit e dalle divergenze fra il presidente (con deleghe operative) di Piazzetta Cuccia, Gabriele Galateri e lo stesso Geronzi sull’opportunità di accrescere il peso di Mediobanca in Rcs.

Ma è anche vero che Galateri si è nettamente rafforzato grazie al solido rapporto con il nuovo ministro dell’Economia, Domenico Siniscalco. Difficile che Geronzi possa davvero scalzarlo, come qualcuno sostiene. Tutt’al più Galateri potrebbe essere costretto a lasciare le deleghe operative; in questo caso al suo posto potrebbe andare il giovane Arpe (che viene proprio da Mediobanca), che sembra si prepari a chiedere a Geronzi una contropartita per averlo difeso a spada tratta durante gli ultimi mesi.

E Geronzi? «Se deve puntare a una poltrona, tanto vale che punti a quella di presidente delle Generali» spiega l’anonimo banchiere. «I giochi del capitalismo italiano si orchestrano bene anche da lì». Ma perché mai dovrebbe muoversi da Roma, ovvero il palcoscenico che esalta tutto il suo potere?

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