La controversia commerciale tra Stati Uniti e Cina ha drenato la crescita dell’economia globale. Le banche centrali stanno lavorando a stimoli monetari per rendere l’atmosfera più favorevole e prevenire gravi cadute, pur non avendo in mano gli strumenti necessari per compensare completamente queste tensioni. Ci aspettano giorni migliori?
Il dibattito sulla ripresa globale è di natura strutturale piuttosto che ciclica, in quanto non vi sembrano essere ragionevoli prospettive di un riavvio significativo della produzione e degli scambi in assenza di una vera distensione nei contrasti tra Cina e Stati Uniti.
Anche se questo scenario ideale rimane comunque possibile, sono già state introdotte differenti ondate di dazi e, anche se considerazioni di ordine politico fanno propendere per un accordo prima delle elezioni statunitensi del 2020, è probabile che esso non comporterà una significativa riduzione dei dazi attualmente in vigore.
I flussi di scambi e le catene di fornitura globali hanno iniziato a soffrire già alla fine del 2018 e sembra improbabile un accordo che riporti i dazi ai livelli in vigore a quella data. Certamente qualunque tregua temporanea tra le due potenze globali è benvenuta, dubitiamo tuttavia che un importante ritiro dei dazi sia dietro l’angolo, in quanto sia i democratici sia i repubblicani sembrano essere a favore di una strategia dura di contenimento economico nei confronti della Cina.
La questione diventa quindi: lo shock commerciale in corso causerà una recessione negli Stati Uniti, ed eventualmente di quale portata?
A nostro giudizio, le precondizioni per una recessione negli Stati Uniti nei prossimi trimestri non sono (ancora) presenti. Un’evoluzione di questo genere presumerebbe una pressione sui consumi statunitensi e un incremento del rischio di credito in misura significativa, due circostanze di cui attualmente non vi è traccia.
Il deterioramento complessivo delle condizioni monetarie e di credito negli Stati Uniti (o persino in Europa se è per questo) rimane modesto e pressoché nullo.
Per quanto riguarda i consumi negli Stati Uniti, che rappresentano oltre il 70% dell’economia, occorrerà preoccuparsi solamente quando e se le imprese inizieranno a ridurre il proprio organico. Fino a questo momento, il mercato del lavoro rimane in tensione.
In un contesto di sostanziale assorbimento della capacità ma di riluttanza da parte dei manager delle società a impegnarsi in piani di investimento a lungo termine a causa dell’incertezza globale, la manodopera serve per compensare la carenza di investimenti.
Si osserva ad esempio che il settore manifatturiero, benché chiaramente in contrazione, ha creato in media 11.000 posti di lavoro al mese nell’ultimo anno.
Se il rallentamento causato da fattori esterni dovesse riversarsi effettivamente sull’economia domestica, il primo segnale che si osserverebbe sarebbe una ripresa delle domande di disoccupazione. Storicamente l’intervallo compreso tra il picco di occupazione e la recessione è significativo. Anche il tasso di disoccupazione solitamente raggiunge il fondo prima di una recessione, e rappresenta perciò un altro indicatore da monitorare.
Infine, il licenziamento dei dipendenti rappresenta l’extrema ratio per le imprese. In tempi di difficoltà, tendono a contenere in primo luogo il costo del lavoro riducendo l’orario di lavoro settimanale, aumentando il numero di lavoratori che lavorano part-time per motivi economici, e utilizzando lo strumento dell’interruzione temporanea del rapporto di lavoro.
In questo momento non si evidenziano segnali di variazione nella tendenza di alcuno di questi indicatori.
Tutto ciò premesso, si prevede per certo una crescita ancora lenta, senza però recessione nel breve futuro, con la spesa per consumi negli Stati Uniti ancora sostenuta dalla tensione sul mercato del lavoro, da una buona crescita delle retribuzioni, dal prezzo basso dei carburanti, e dal boom del settore immobiliare, sulla scia del basso costo del debito.
In questo contesto di rischi significativi per la crescita economica (lo shock commerciale illustrato sopra comprende la saga della Brexit e le crescenti tensioni in Medio Oriente), ma senza segnali di recessione per gli Stati Uniti, e quindi di tassi di interesse che sono destinati a rimanere bassi, continuiamo a preferire un atteggiamento leggermente difensivo sull’azionario, strategie di carry lunghe sui titoli a reddito fisso, e coperture della volatilità come yen, oro e opzioni put.