Economia

Tutti i numeri dell’Africa

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di Francescomaria Tuccillo

Diciotto anni è l’età media dei suoi abitanti, a fronte dei 42 anni dell’Europa. Due miliardi e mezzo sarà la sua popolazione nel 2050, tra trent’anni, destinata ad aumentare a quattro miliardi e trecento milioni nel 2100. Quattro è il ritmo di crescita percentuale medio del Pil da oggi al 2024. Sono i numeri dell’Africa. Sono numeri molto vicini a noi, all’Italia. Non possiamo ignorarli, perché sono solo settanta i chilometri che separano Pantelleria dalle coste della Tunisia.

La fotografia scattata da queste cifre è chiara. I Paesi sviluppati crescono poco economicamente, per nulla demograficamente e troppo anagraficamente. In futuro – un futuro così prossimo da essere già cominciato – si troveranno faccia a faccia con un continente giovanissimo e in rapida avanzata, la cui popolazione sarà il triplo di quella europea e le cui coste settentrionali sono visibili a occhio nudo dall’Italia.
Questa è la realtà che c’è oltre gli stereotipi. Una specie di radicato “colonialismo interiore”, che affonda le sue radici in secoli di storia diventati un inconscio collettivo duro a dissolversi, condanna invece l’Africa a essere vittima di convenzionali semplificazioni. Per quasi tutti resta un luogo omogeneo e remoto, al meglio considerato esotico da chi può permettersi un safari in Kenya o una vacanza alle Seychelles. Al peggio viene visto come minaccioso da chi stenta a tirare la fine del mese, perché “trampolino dell’invasione aliena che travolgerà la nostra civiltà”. E arrafferà i nostri scarsi posti di lavoro.

In verità il “Continente nero” così vicino e vario nella sua geografia, nelle sue etnie, nei suoi gradi di sviluppo, “emigra” meno di quanto si narri. Dispone di una quantità sterminata di risorse naturali pregiate, può contare su un ceto medio in aumento e su una nuova classe dirigente competente e poliglotta che va sostituendo i vecchi leader a vita.

Sta percorrendo, con molta fatica ma con considerevoli progressi, il cammino verso una maggiore stabilità democratica. Insomma, lungi dall’essere ininfluente sulle nostre vite, costituisce uno snodo strategico nella geopolitica del pianeta. Basti osservare l’interesse dei giganti d’oriente – la Cina in primis, seguita a ruota dall’India – che mai sono stati così attivi in Africa, con l’intento di imporsi come i suoi nuovi interlocutori privilegiati in campo militare, industriale, commerciale, finanziario e culturale.
Vergini di ataviche colpe coloniali e forti di una capacità di intervento economico rapida e flessibile, nel 2018 si sono posizionati come i primi due partner commerciali del continente, davanti agli Stati Uniti e ben più in alto della Francia, che fino a qualche anno fa era nella triade di testa e ora è scesa al settimo posto. Per dirla in cifre, in dodici anni (2006-2018) le esportazioni indiane in Africa sono cresciute del 292%, quelle cinesi del 226% e quelle europee del 41%.

 

 

Ci sono ancora tempo e spazio per l’Europa? E per l’Italia in particolare, che essendo il ponte per eccellenza sul Mediterraneo, dovrebbe rappresentare l’interlocutore naturale?
Il è poco. Lo spazio, a mio parere, ancora molto. Gli africani stanno affrontando questa fase della loro storia con uno spirito nuovo: non vogliono essere monopolizzati da nessuno, sono aperti alle proposte più interessanti per i loro paesi, diffidano della debt-trap diplomacy cinese, cioè dell’acquisizione, da parte di Pechino, di infrastrutture e opere strategiche nel caso in cui non vengano ripagati i debiti contratti per costruirle. Sta a noi non perdere le opportunità che l’Africa offre alle imprese del nostro Paese, ivi comprese (o soprattutto) quelle piccole e medie.

La chiave d’accesso. Avendo vissuto e lavorato per dieci anni nella regione subsahariana, mi capita spesso di sentirmi chiedere come si fa per accedere a quei mercati. Di solito rispondo con una sola parola: “cultura”. La cultura, in senso etimologico – coltivare un business con la tenacia e l’attenzione con cui si coltiva un campo – è la chiave d’ingresso.
Una chiave d’ingresso che si ottiene, in fase di preparazione, attraverso la conoscenza che va oltre i preconcetti sul Continente. Qualunque impresa può costruirsela con adeguati percorsi di formazione, che includano storia, geopolitica, geografia, climi, costumi e l’indispensabile apprendimento del cross-cultural management.
In fase operativa la cultura si traduce nella capacità di interloquire con i nuovi decision-maker con sensibilità umana e intelligenza strategica.

Una delle principali ragioni che hanno causato la perdita di terreno dell’Europa in generale e dell’Italia in particolare è il tatticismo. Troppo spesso, nei nostri affari africani, abbiamo colto la palla al balzo quasi per caso, troppo spesso abbiamo proposto prodotti obsoleti per rispondere a esigenze effimere, posizionandoci come venditori e non come partner.
E troppo spesso abbiamo pensato che la corruzione – che di tutti i tatticismi è il meno lungimirante – fosse la via più rapida per arrivare al risultato.
Ma anche su questo fronte, l’Africa sta cambiando radicalmente. Collaborare in maniera sapientemente strategica potrebbe costituire una strada vincente per gli africani e per noi. A noi offrirebbe uno sbocco di mercato di cui abbiamo grande bisogno e anche una possibile soluzione al problema migratorio che, pur se in calo, è strutturale e non congiunturale.

Sarebbe infatti un modo di “aiutarli a casa loro”, ma sul serio. A loro porterebbe in dote il talento, le tecnologie, l’esperienza e la creatività di un paese, l’Italia, che su questo fronte ha poco da invidiare a chicchessia e che è sentito dagli africani come affine o empatico per molte ragioni. La condizione per vincere è rinunciare a ogni tentazione di neo-colonialismo, in tutte le sue forme, e stabilire un dialogo professionale paritetico. Il rischio di perdere nasce dall’immobilismo, cioè dalla rinuncia, per diffidenza o impreparazione, alla grande opportunità africana.

 

L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di novembre del magazine Wall Street Italia.