Società

GLI AMBIENTI
OSTILI A BERLUSCONI

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(WSI) – L’aria che tira è che il Corriere della Sera, Confindustria, persino la popolare Confcommercio saranno interlocutori assai scomodi per il governo di centrodestra nel lungo anno di campagna elettorale che ci aspetta. E non parliamo neanche della magistratura e più in generale del mondo universitario. Tanto più se, com’è prevedibile, il risultato delle regionali non sarà incoraggiante.

Eppure in qualche modo Silvio Berlusconi aveva riflettuto sull’esperienza del 1994, sui rapporti difficili con gli ambienti che contano e aveva cercato di prendere qualche precauzione. La nomina di Renato Ruggiero al ministero degli Esteri era stata il segno di una volontà politica di rimediare ai rapporti con il mondo Fiat, con le burocrazie europee e internazionali, con ampi settori dell’establishment. La sua cacciata è stato il segno che i rapporti continuavano a essere difficili.

Quella di Giulio Tremonti è stata invece una vicenda che va in senso contrario: partiti con il più programmatico dei ministri nel settore nevralgico del Tesoro e delle Finanze, si è finiti con una persona ben collegata ai vari ambienti della grande impresa, della finanza, dell’università. In sé i due casi hanno una loro spiegazione razionale: l’allontanamento di Ruggiero fu opportuno altrimenti l’Italia non avrebbe pesato in Europa e nel mondo come invece è stata capace di fare.

La scelta di Domenico Siniscalco, alla fine, in una situazione d’emergenza, è stata felice e ha dato al governo una “base tecnica” su cui costruire l’attuazione del suo programma. Però, se si riflette su come sono andate queste vicende, come si sono sottovalutate le relazioni tra scelte programmatiche e personale politico, come si è lasciato dominare da ambienti esterni il rapporto con il ministro dell’Economia, quello che più aveva rapporti con il mondo finanziario e quindi con il cuore stesso dell’establishment, si ha la misura delle profonde carenze del centrodestra.

Quel Baldassare sbeffeggiato

Anche nel settore in cui il premier ha le competenze più precise, quello televisivo, le gaffe sono state abbondanti. Si è scelto un ex presidente della Corte Costituzionale, Antonio Baldassare, perché la sua autorevolezza tenesse insieme il consiglio d’amministrazione, ed è finito isolato e sbeffeggiato. Si è tentata un’operazione con due giornalisti orientati a sinistra, Paolo Mieli e Lucia Annunziata, e non si è riusciti a portarla a termine. Si sono costruiti con esternazioni berlusconiane i casi Santoro e Biagi, invece di gestirli aziendalmente. Persino in Mediaset l’avvicendamento di Enrico Mentana è stato gestito provocando disagi non necessari.

Eppure le accuse di faziosità indicibili nella Rai (e anche in Mediaset) non sono fondate. Il Tg3 e la Rete3 hanno mantenuto la loro funzione di difesa del pluralismo politico-culturale televisivo. Prima l’arrivo di Rupert Murdoch con la sua televisione satellitare, poi gli effetti di quella “ignobile” legge Gasparri stanno aprendo gli spazi a un’offerta di televisione pluralistica e articolata di cui approfitta anche l’arcinemico di Berlusconi, Carlo De Benedetti. Se si ragiona su questo settore, si constata come l’unica operazione di convivenza civile e costruttiva tra centrodestra ed establishment, è stato il rapporto con il presidente dell’Autorità delle comunicazioni, l’amatiano Enzo Cheli.

Con gli industriali, all’ottimo lavoro di Roberto Maroni e Maurizio Sacconi al Welfare, si dovevano collegare le aperture di Tremonti, che per il suo caratteraccio e le sue scelte non ci sono state. E soprattutto l’impegno del ministro delle Attività Produttive, Antonio Marzano. Se si considera che spazi si erano conquistati ai tempi del centrosinistra Pierluigi Bersani ed Enrico Letta si ha un’idea della fragilità di un ministro come Marzano. E si spiega perché si è passati in Confindustria da un alleato scomodo, talvolta scomposto, ma leale come Antonio D’Amato, a un interlocutore spesso ostile come Luca di Montezemolo.

Della giustizia non parliamo neanche: è vero che la magistratura ha assunto nel suo complesso una rigida difesa corporativa del proprio status e che la “sindacalizzazione” del suo governo è un bastione difficile da smontare. Ma l’incapacità di aprire contraddizioni tra i settori rigidamente chiusi e quelli più professionali del centrodestra, è stata tragica. In notevole parte questo esito dipende dall’avere seguito la linea dei compromessi sui principi (immunità parlamentare, divisione delle carriere) e dell’ostilità sui particolari (le varie leggi ad hoc). In qualche modo è quello che è successo anche a un brillantissimo ministro come Letizia Moratti che alla fine si è trovata prigioniera tra pedagogisti, rettori e gli immancabili sindacalisti, e ha annacquato posizioni più nettamente riformiste senza placare la protesta.

Con un establishment incrostato dal corporativismo, condizionato dal pansindacalismo, la via del centrodestra per sopravvivere è strettissima.

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Roma. Non è soltanto un appuntamento mancato, quello tra il metapolitico Berlusconi e l’establishment della borghesia legata alla finanza, al capitalismo industriale o all’editoria di massa. E’ qualcosa di più. E’ la storia di un guardarsi tra l’imprenditore diventato grande, reinventatosi in politica, e un club di poteri diffidenti che hanno preteso di tenere a distanza l’uomo e sotto tutela il suo manifestarsi politico.

Lo hanno fatto al riparo di un blasone rivendicato col piglio della gente di mondo, ma senza accorgersi che la novità dal basso rappresentata dal Cav. seguiva una traiettoria inversa al loro declino, al tramonto delle rendite, alla fine di vasti programmi concepiti da patriarchi aureolati e seppelliti da ragionieri o tenuti in vita da uomini-immagine.

Il paradosso è che l’atteggiamento obliquo nei confronti dell’ultimo arrivato culmina nel momento in cui i tutori perdono la scena internazionale, si scoprono poteri forti sempre meno forti e più marginali. Emblematico il caso degli Agnelli con la loro Fiat. Fino agli anni Novanta tra il Cav. e gli Agnelli i rapporti sono neutrali e paritari. Alla metà degli Ottanta, quando Mediobanca comincia a sganciarsi dall’Iri per aprirsi ai privati il governo presieduto da Bettino Craxi sollecita l’intervento di tre nomi giudicati di peso: De Benedetti, Berlusconi e Agnelli.

Le cose cambiano dacché il Cav. s’inventa un partito e una coalizione con cui governare. Da quel momento la voce di Gianni Agnelli, richiesta nelle rare interviste, attesa ai seminari di Cernobbio – “ma ha chiesto lui di vedermi in privato”, puntualizza Berlusconi nel 1999 – fraintesa o strumentalizzata dal Palazzo, è spesso il balsamo o la scomunica del momento per i due governi Berlusconi. Intanto la Fiat smarrisce l’antica centralità, mostra lacune di visione e prospettiva e la sopraggiunta crisi illumina le debolezze dello stesso Gianni Agnelli, che viene pur sempre guardato dal basso come un giudice bene ascoltato all’estero.

Agnelli che, dopo aver fatto la guerra prima a Enrico Cuccia e poi a Vincenzo Maranghi, nel 2000 punge Berlusconi per l’entrata in Mediobanca della sua Mediolanum (“Lui sta bene con loro, loro stanno bene con lui”). Agnelli cui viene ricondotto l’ingresso di Renato Ruggiero nel secondo esecutivo Berlusconi. Agnelli temuto quando polemizza con il Cav. dopo le dimissioni di Ruggiero medesimo ma che promuove comunque l’esecutivo (“ha messo a frutto il mandato affidatogli dagli elettori”). Agnelli il cui magistero, dopo la sua morte e quella di Umberto, viene svolto adesso da Luca Cordero di Montezemolo, manager comunicativo e non meno temuto, attento ad accreditarsi per uomo-Ferrari prestato all’amministrazione Fiat.

Dalla Fiat ai patti di sindacato

Dalla Fiat si arriva alle banche e ai loro patti di sindacato dalle porte girevoli (ma non per tutti) che conducono alle ambite concentrazioni editoriali come Rcs e l’Espresso. Paesaggio variegato dove si contano i non amici del Cav.

Tra gli editori chic con interessi ramificati, Carlo De Benedetti rappresenta un potere tramontato e risorto. L’anima di un Soros italiano costretta nell’orizzonte mentale di un buon ragioniere, uscito ammaccato dai disastri di Olivetti e rilucente oggi sui mercati dell’elettricità, De Benedetti è avversario del Cav. nei tribunali e centro di gravità antiberlusconiana sulla carta stampata.

Ma il grosso dei poteri non neutrali è identificabile con un sistema bancario ora sottodimensionato, ostile all’idea tremontiana di controllare, con personale degli enti pubblici, le Fondazioni in cui si è acquartierato quel che resta di un potere effettivo. E’ il mondo dell’economia orfana di guide come Enrico Mattei e strateghi come Raffaele Mattioli o Cuccia (lui fece in tempo a capire che con il berlusconismo si poteva patteggiare).

Mondo caduto nelle mani di banchieri borghesi progressisti come Giovanni Bazoli. Incapaci di metabolizzare la fine della simbiosi Stato-banche, capaci però di ridurre a un bancone Ambrosiano quei grandi istituti che erano la Comit e la Cariplo. Si lasciano corteggiare dai fazisti dell’ultim’ora che abitano in An ma sbarrano le porte auree dei loro patti al berlusconismo perché disturbati dalla sua rozza vitalità.

Fra loro, persino al perfetto Alessandro Profumo (Unicredit) manca il passo del grande disegnatore di scenari. Su queste figure del dandysmo ragionieristico che governa i poteri rimasti influenti, svettano infine Antonio Fazio e Mario Monti. Entrambi perpetuano la tradizione dei tecnocrati autorevoli. Il primo ha addomesticato il berlusconismo ed è uscito integro dall’assedio alle prerogative di Bankitalia. Ma il suo potere è stato e verrà ancora messo in discussione. Monti ha i tratti del civil servant pronto per il ruolo dell’outsider. Ma anche in lui, si leggano le sue ultime dichiarazioni sul pericolo nazionalista in Europa, sul tocco del burocrate d’eccellenza prevale l’astrattezza del ragioniere.

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