Se già prima della pandemia da Coronavirus le grandi aziende avevano sottratto quote di mercato a quelle più piccole, soprattutto nel settore tecnologico, ora questa tendenza potrebbe rafforzarsi.
I numeri parlano chiaro. Nelle ultime tre recessioni, i prezzi delle azioni delle imprese americane (in dieci settori) del quartile superiore sono aumentati in media del 6%, mentre quelli del quartile inferiore sono diminuiti del 44%” spiegano a questo proposito gli esperti di Aviva, che provano a delineare le implicazioni che questo trend avrà a livello di investimenti.
E ora?
“Alcune società verranno acquisite e alcuni player più deboli non sopravvivranno e dichiareranno fallimento”, afferma Giles Parkinson, Global Equities fund manager di Aviva Investors. “In parte, questo è ciò che accade durante le recessioni, in quanto danno il colpo di grazia mettendo fine alle sofferenze di aziende decotte”.
A causa delle misure di contenimento adottate oggi, le aziende che subiscono i danni peggiori sono quelle dei settori viaggi, tempo libero e retail, in quanto gli aerei non volano, le frontiere e i negozi chiusi. Negli ultimi anni le imprese più deboli all’interno di questi settori sono state sostenute dai bassi tassi d’interesse e dall’accesso facile al capitale.
Sul fronte opposto, le condizioni del lockdown – dicono da Aviva – sembrano favorire i giganti del tech, già oggi tra le società più redditizie al mondo. Sempre più persone fanno acquisti online, sostenendo l’e-commerce di Amazon, mentre l’aumento del gaming online andrà a beneficio della sua divisione Twitch, il player dominante nel mercato dell’e-sport. Allo stesso modo, Apple e Netflix stanno beneficiando di una maggiore domanda di servizi di streaming.
Anche le aziende delle telecomunicazioni, quelle che forniscono infrastrutture per i dati e tecnologie per il lavoro a distanza dovrebbero trarre beneficio in questo contesto, in quanto le persone sono passate dalle scrivanie degli uffici ai tavoli delle cucine.
Come dicevamo, la concentrazione della ricchezza in mano a poche aziende è un fenomeno già visto prima di questa emergenza. I dati indicano che negli ultimi due decenni i mercati statunitensi hanno visto accentuarsi il livello di concentrazione. Il numero di società quotate si è dimezzato tra il 1997 e il 2013 e il numero di nuove “matricole” è diminuito. I profitti sono sempre più concentrati tra le aziende leader rimanenti: il 10% delle società quotate genera l’80% dei profitti totali a livello globale, secondo McKinsey.
Le ragioni alla base delle concentrazione della ricchezza
Sono state fornite varie spiegazioni in merito a queste tendenze. Una è data dai cambiamenti in atto nell’economia. Le aziende tecnologiche sono cresciute rapidamente grazie all’effetto network, creando piattaforme digitali che migliorano quanto più le persone le utilizzano, facendo di fatto venir meno la concorrenza. Mentre altri settori integrano le tecnologie digitali, l’effetto network si sta diffondendo in tutte le economie.
Le aziende più piccole non riescono a tenere il passo e tendono a tagliare gli investimenti in nuove idee e processi, restando così ancora più indietro. Le grandi aziende inoltre stanno usando sempre più la loro influenza politica per sbaragliare la concorrenza e le normative aziendali esistenti, così da rafforzare il loro vantaggio competitivo.
Effetti sugli investimenti
Per chi investe nelle grandi aziende, il loro predominio può non sembrare il problema più urgente: come ha detto Warren Buffett, un monopolio non regolamentato è per certi versi l’investimento ideale. Ma la concentrazione di quote di mercato in poche aziende potrebbe creare nuovi rischi.
“Man mano che i settori si consolidano attorno a poche grandi aziende, i mercati diventano più vulnerabili agli shock esterni o meno “anti-fragile“. Uno dei principi fondamentali degli investimenti è la diversificazione. Eppure gli investitori si sono compiaciuti della concentrazione avvenuta in vari settori, anzi l’hanno accolta con gioia, perché pensavano fosse un bene per i loro rendimenti”, spiega Hearn. “Nel lungo periodo, c’è il rischio di un contraccolpo politico nei confronti delle grandi aziende, soprattutto se si dovesse ritenere che queste abbiano consolidato il loro potere e incrementato i loro profitti in un periodo di difficoltà generale. Prima della pandemia da COVID-19, c’era un crescente consenso sulla necessità per le aziende nel fare qualcosa di più che rendere felici gli azionisti. La pandemia dimostra chiaramente che le aziende sono resilienti solo quando il contesto in cui operano è sano, e la competitività del mercato è un indicatore della salute del contesto. Le aziende che attuano misure aggressive e anticoncorrenziali – ricorrendo alla loro posizione dominante per sfruttare consumatori e dipendenti – alla fine indeboliscono il sistema nel suo complesso. Un risultato che non è nell’interesse di nessuno”.