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(WSI) – Stefano Ricucci è forse matto? O c’è del metodo dietro la sua follia? È questa, senza giri di parole, la domanda che circola nella City meneghina da quando ha preso corpo la scalata dell’immobiliarista romano alla Rcs. Un’ascesa scandita da un progressivo aumento dei prezzi fino a livelli che alcuni membri del patto di via Solferino hanno definito «folli».
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Attenzione, però: non sempre è facile individuare il prezzo «giusto». Soprattutto quando, come nel caso di Rcs Mediagroup, accanto ai fondamentali di bilancio e ai beni materiali, occorre dare un valore ai marchi e ai beni intangibili di via Solferino. Tema opinabile, come dimostra il precedente di Diego Della Valle, che dopo la quotazione di Tod’s fece rilevare alla spa i marchi Hogan’s e Fay per 155 milioni (il marchio Valentino, cinque anni dopo, è stato valutato 220 milioni).
E c’è da attribuire un valore anche alla visibilità e al prestigio che discendono dall’essere azionista del Corriere della Sera. Basti pensare al «cono d’ombra» in cui è scivolato Cesare Romiti dopo aver lasciato la presidenza Rcs. Di fronte al primo quotidiano italiano, chi può dire cosa è caro e cosa no?
Bloomberg Borsa & Finanza ci ha provato incrociando vari criteri di valutazione: quello dei fondamentali, ma anche del business plan di Vittorio Colao (da un anno giusto in Rcs) e i risultati dei competitor, L’Espresso e la Mondadori. E quest’esercizio ha prodotto un risultato a sorpresa.
IL PREZZO DI ROMITI. Gli analisti non hanno dubbi nel valutare l’azienda nel suo complesso. Prima ancora che Ricucci iniziasse la scalata al Corriere, Deutsche Bank fissava il target price di Rcs a quota 4,7 euro. Stessa valutazione veniva espressa da Intermonte, mentre per Euromobiliare il fair value del titolo era di 4,8 euro. Del resto, nel giugno 2004 la quota ceduta dalla famiglia Romiti era stata pagata 4,4 euro per azione. Un valore che un anno fa sembrava astronomico, ma che oggi pare quasi a sconto rispetto ai fondamentali.
IL PORTAFOGLIO. RcsMediagroup ha partecipazioni finanziarie tra cui azioni proprie, titoli e warrant di Banca Intesa, Dada, Poligrafici Editoriale. Oltre ad asset non consolidati riga per riga nel bilancio (come Igp Decò) e crediti fiscali pregressi per un valore totale di 550 milioni (0,72 euro per azione). In RcsMediagroup esistono poi, nell’ambito del core business, altri asset tangibili come gli immobili, tra cui la sede del Corriere che vale circa 60 milioni (0,08 euro per azione), edifici strumentali all’attività svolta che, in caso di dismissione, comporterebbero nuovi costi operativi.
IL PIANO INDUSTRIALE. Dopo anni di gestione poco efficiente, il gruppo è passato da essere una holding di partecipazioni (Hdp) a società editoriale pura, che per tutto il 2004 si è trascinata una pesante eredità. Pertanto, l’anno zero del gruppo editoriale, che il 14 luglio lancerà l’edizione full colour, sarà proprio il 2005. Il primo in cui il nuovo management guidato da Colao potrà mettere a frutto le sinergie intragruppo e i tagli di costi necessari a riportare Rcs sui livelli che merita, sfruttando anche la sua posizione di leadership. Il piano industriale 2005-2007, presentato lo scorso dicembre da Colao, prevede una crescita dei ricavi di 350 milioni l’anno e un parallelo aumento della redditività con un margine operativo lordo che passa dal 9% delle vendite di fine 2004 al 13% atteso per il 2007. Nello stesso periodo, il risultato operativo rispetto ai ricavi (Ros) dovrebbe salire dal 6% del 2004 al 9,5% a fine triennio. Anche se Colao dovesse raggiungere gli obiettivi, già ambiziosi, che si è prefissato, Rcs risulterebbe comunque meno efficiente dei concorrenti.
I COMPETITOR. I benchmark di riferimento sono il gruppo Editoriale L’Espresso, per quanto riguarda l’attività dei quotidiani e delle vendite abbinate, e Mondadori per i libri e i magazine. Se, facendo un esercizio di pura teoria, si applicassero ai ricavi generati dalle singole divisioni di Rcs gli stessi margini di aziende come quelle guidate da Marco Benedetto (ad dell’Espresso) e da Maurizio Costa (ad Mondadori), a quel punto Rcs dovrebbe valere almeno 5,3 euro per azione, il 15% circa in meno rispetto al massimo storico di maggio (6,3 euro). Questa è la stima elaborata dall’ufficio studi di Bloomberg Borsa & Finanza in collaborazione con alcuni primari broker, prendendo a riferimento i multipli di mercato a cui trattano oggi in Borsa L’Espresso e Mondadori.
IL PREZZO «GIUSTO» È 5,3 EURO. Nel dettaglio, il valore d’impresa di Rcs quotidiani – e quindi in particolare del Corriere e della Gazzetta – sarebbe 1,3 miliardi (1,7 euro per azione), quello delle attività spagnole di Unedisa 550 milioni (0,7 euro), i magazine 380 milioni (0,5 euro), le attività radiofoniche 200 milioni (0,25) e i libri 840 milioni (1,1 euro). Gli altri asset e partecipazioni varie all’estero e non, invece, varrebbero circa 240 milioni (0,3 euro). Se a questo si aggiungono gli asset finanziari di cui sopra (550 milioni), ecco che il titolo dovrebbe valere, solo in base ai fondamentali, 5,3 euro per azione. Ciò detto, Stefano Ricucci, di professione finanziere ed immobiliarista, ha comprato il suo primo 2% del capitale nel maggio del 2004, a giugno dello stesso anno era salito al 3%, mentre il titolo valeva 3,63 euro. Solo a gennaio di quest’anno, e quindi dopo la presentazione del piano industriale di Colao, la Magiste era salita al 5 per cento. Ad aprile aveva racimolato il 7,5%, un mese dopo la quota era già raddoppiata al 15% e a fine giugno Ricucci ha annunciato alla Consob di possedere il 20,1% della società. Quanto sia il valore di questo pacchetto è difficile dire.
PREMIO DI CONTROLLO. Considerando gli strumenti derivati, gli acquisti e le mediazioni dei valori di carico progressive, è comunque ragionevole ipotizzare che Magiste ha speso meno di 5 euro per azione. E quindi meno di quanto in teoria sia l’effettivo valore che Rcs potrebbe esprimere se fosse gestita in modo efficiente. La media ponderata dei prezzi sui volumi degli ultimi 12 mesi di scambi sul titolo è invece di 5,2 euro. Se quindi Ricucci dovesse salire sopra il 30% del capitale della società e fosse costretto a lanciare un’Opa obbligatoria, il prezzo dell’offerta sarebbe pari alla media tra il prezzo maggiore pagato e l’andamento dell’ultimo anno (6,3 euro, ovvero i massimi): ne deriverebbe un prezzo d’Opa di 5,75 euro per azione. Ma se veramente Rcs può valere 5,3 euro, senza considerare il valore «intangibile» del potere e della visibilità di questo gruppo, basta ipotizzare un premio di controllo del 20% per superare di gran lunga anche la cifra minima dell’Opa obbligatoria. Insomma, forse Ricucci non è proprio matto del tutto.
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