Le fortune delle scuole di pensiero economico sono state più spesso dettate dalle circostanze storiche che non dalle “scoperte” accademiche. Non tanto, quindi, il rigore o la bontà dei modelli, quanto la migliore aderenza di un certo approccio teorico alle necessità del momento. Se nell’era della globalizzazione post-1989 la crescente liberalizzazione del mercato globale poteva suggerire un limitato intervento dello stato sull’economia e sul commercio, diverso era lo scenario nell’America della Grande Depressione, durante la quale le teorie keynesiane divennero l’architrave del New Deal adottato da Franklin D. Roosevelt.
La crisi indotta dal coronavirus potrebbe segnare un nuovo punto di svolta nell’impostazione teorica dominante? Qualche avvisaglia sembra essersi già presentata. Le circostanze, in questo caso, hanno costretto gli stati a intervenire pesantemente con ogni sorta di aiuto economico (e monetario) pur di scongiurare una devastante spirale di fallimenti che avrebbe, a sua volta, alimentato la disoccupazione e distrutto il potere di acquisto di una larghissima parte di popolazione. Terminata la fase più acuta della crisi, l‘interventismo statale è destinato a restare in campo per lungo tempo?
E’ in qualche modo ciò che si augura l’editorial board del Financial Times, espressione della posizione ufficiale del prestigioso quotidiano di tradizione liberale:
“Riforme radicali – che invertano la direzione politica prevalente degli ultimi quattro decenni – dovranno essere messe sul tavolo. I governi dovranno accettare un ruolo più attivo nell’economia”, scrive il Financial Times, “dovranno vedere i servizi pubblici come se fossero investimenti anziché passività, e pensare a come rendere i mercati del lavoro meno incerti. La ridistribuzione sarà di nuovo all’ordine del giorno; i privilegi degli anziani e dei ricchi rimessi in questione. Le politiche fino a poco tempo fa considerate eccentriche, come il reddito di base e le tasse sulla ricchezza, dovranno essere inserite nel mix di politiche“.
Lottare contro la disuguaglianza, una priorità per il Fmi
La disuguaglianza, da molti considerata una delle cause dell’ascesa dei movimenti populisti in varie parti del mondo sviluppato, rischia di ampliarsi ancora di più e impone una rinnovata attenzione da parte dei decisori politici.
Ad affermarlo è, in questo caso, il Fondo monetario internazionale – un’istituzione tacciata di aver propugnato approcci eccessivamente “ortodossi” nella gestione di vari programmi di aiuti.
“Mentre la pandemia sta avendo un effetto negativo su quasi tutti i livelli della società, le politiche devono prestare particolare attenzione alla prevenzione dei danni a lungo termine sui mezzi di sussistenza dei meno avvantaggiati nella società”, ha scritto il Fmi in un articolo firmato da Davide Furceri e altri autori. “Senza tentativi decisi e mirati è probabile che assisteremo ad un aumento della disuguaglianza”, hanno proseguito gli autori, suggerendo un “New Deal” che incrementi con decisione l’assistenza sociale.
“Ampliare i sistemi di assistenza sociale, introdurre nuovi trasferimenti, potenziare i programmi di lavoro pubblico per offrire opportunità di impiego, offrire opportunità di finanziamento per sostenere l’occupazione e misure fiscali progressive (magari attraverso un “supplemento di solidarietà”): tutti questi provvedimenti probabilmente faranno parte del mix di politiche che potranno allontanarci dalle devastanti conseguenze distributive della pandemia“, scrivono gli autori del Fmi.
Una sfida al liberismo sui cui poggiano i trattati Ue
Per quanto riguarda i trattati su cui si fonda l’Unione Europea un mutamento di prospettive teoriche rischia di imporre, prima o dopo, un adeguamento di alcuni concetti basilari dell’integrazione europea, da Maastricht in poi. Per il momento, i governi potranno spendere oltre i limiti di deficit prestabiliti e intervenire con denaro pubblico per salvare le aziende in crisi, contravvenendo ai limiti imposti agli aiuti di stato. Ma tale sospensione non potrà essere eterna.
Una politica pubblica stabilmente più “interventista”, ad esempio, potrebbe sfidare strutturalmente l’obiettivo di deficit (3% sul Pil). Potrebbe essere altresì necessario, al fine di riequilibrare la grande massa di debito che produrrà questa crisi, innalzare gli obiettivi della Bce sull’inflazione – decisione che contribuirebbe ad alleggerire gli oneri dei debitori a discapito dei creditori accelerando così la ripresa.
Se è vero che la crisi del coronavirus aprirà una nuova fase di politica economica e un nuovo consenso intorno a un ruolo più preminente dello stato nell’economia, sarà difficile che i trattati europei potranno restare immuni a questa svolta.