Questo articolo fa parte del lungo dossier “Uscire dal baratro” pubblicato sul numero di maggio del magazine Wall Street Italia
Il debito non si ripaga facendo altro debito. Serve altro. Come accade in ogni famiglia la capacità di indebitarsi dipende dal reddito disponibile necessario per rimborsare gli interessi e il capitale.
Per uno stato la situazione è analoga, per rimborsare i debiti accumulati nel tempo è necessario aumentare le entrate, ovvero il Pil. È la creazione di nuova ricchezza che permette di ridurre il fardello del debito pubblico e di ridare speranza agli italiani. Non è pensabile ottenere una riduzione del debito pubblico solo con i tagli della spesa.
Un processo virtuoso. La gestione della ripresa post emergenza coronavirus deve pertanto essere giocata sulla crescita economica e non su meccanismi di creazione di nuovo debito, visto che i conti pubblici, secondo le previsioni del governo, indicano per fine anno un rapporto debito/Pil al 156%, soglia difficilmente sostenibile come sottolineato anche dalle agenzie di rating.
Perché concentrarsi sulla crescita? La ripresa della congiuntura favorisce contemporaneamente il gettito per le casse dello stato e riduce il peso dei contributi assistenziali versati a chi è difficoltà e che pesano per un terzo sul bilancio dell’Inps. Detto così sembra facile, ma come si può far ripatire l’economia italiana dopo un decennio di stagnazione?
La ricetta è da anni nei cassetti della politica ma rimane inapplicata a seguito dell’instabilità dei governi, che si susseguono di anno in anno senza dare continuità agli interventi presi in precedenza. Alla base della ripresa ci sono le riforme della macchina dello stato. Le invocano soprattutto gli imprenditori che hanno smesso di investire nel nostro Paese, preferendo rivolgere il loro sguardo altrove.
Da anni i sondaggi fra i capi azienda indicano tre freni all’investimento in Italia: burocrazia, lentezza della giustizia (in particolare civile) e il livello della tassazione. Qualsiasi programma di rilancio deve ripartire da qui. È necessario semplificare regolamenti e procedure per snellire la macchina amministrativa e fare leggi più chiare per evitare di perdere tempo in procedure farraginose.
È poi imprescindibile accorciare i tempi della giustizia per avere sentenze in tempi più brevi. Secondo la Banca Mondiale, nel confronto con i Paesi più industrializzati, l’Italia si colloca in penultima posizione per i tempi di risoluzione di una disputa commerciale, con una durata di 850 giorni, seguita soltanto dalla Grecia (1.460 giorni). In Spagna e Francia bastano 335 giorni.
Inoltre sul fronte fiscale è necessario un maggior sforzo contro l’evasione e una semplificazione degli adempimenti a carico di persone e aziende. Con una pressione fiscale del 42,4%, secondo l’Ocse siamo il sesto Paese per imposizione tra i grandi stati industrializzati.
Il paradosso è che abbiamo una costosissima macchina burocratica ma funziona molto male. Secondo l’indice europeo sulla qualità della pubblica amministrazione l’Italia è al penultimo posto dietro solo alla Grecia.
Il tempo delle riforme. Grazie alle misure messe in campo dalla Bce c’è il tempo necessario per avviare queste riforme. Secondo il ‘Programma nazionale di riforma’, documento allegato del Def 2018 (la vecchia legge finanziaria) l’insieme della riforma della pubblica amministrazione, concorrenza, mercato del lavoro, giustizia e istruzione, con gli interventi in materia di crediti deteriorati e procedure fallimentari e le misure relative a ‘Industria 4.0’, porterebbero un beneficio del 2,9% annuo nel lungo termine.
Si tratta di un bel tagliando al motore dello stato che dopo la messa a punto potrebbe riprendere a correre come avveniva in passato. I numeri stimati dal Ministero dell’economia sono in linea con quelli stilati periodicamente dall’Ocse e dal Fmi che stimano un impatto positivo sul Pil italiano in media del 2% all’anno. A questi numeri si deve anche aggiungere l’effetto di una decisa lotta all’evasione fiscale che ogni anno sottrae dalle casse dello stato circa 110 miliardi di euro.
I numeri parlano chiaro: l’Italia è ai primi posti nelle classifiche di inefficienza e ultima in quelle di merito. Insomma, a Roma basta discussioni inconcludenti sul Mes, è necessario rimboccarsi le maniche da subito per riorganizzare quello che frena l’Italia.
L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di maggio del magazine Wall Street Italia