Con una storia di otto default alle spalle, l’Argentina è per l’ennesima volta in seri guai per il suo debito pubblico.
Il governo del Presidente Alberto Fernandez ha dichiarato la sospensione di un pagamento di 500 milioni di dollari di debito pubblico in scadenza in aprile, rivelando la sua impossibilità di ripagare una parte consistente del proprio debito in scadenza per quest’anno. Una decisione che di fatto rappresenta una dichiarazione di selective default su circa 65 miliardi di dollari di debito estero.
Un’economia fragile e un debito insostenibile
La situazione economica del Paese è preoccupante. Il presidente Fernandez (insediatosi a lo scorso 10 dicembre) ha ereditato dal predecessore Macri un paese in recessione e fortemente indebitato, con dei conti pubblici tutt’altro che solidi. Il crollo del Peso argentino inoltre, scambiato a 68 pesos per un dollaro, rende ancora più difficile la restituzione del debito estero denominato in dollari. Come se non bastasse, la recente pandemia di Covid-19 ha costretto ad imporre restrizioni sulla produzione e l’economia, in un paese in cui il 32% della popolazione vive sotto la soglia di povertà (dati World Bank 2018).
L’intenzione del nuovo governo sembra essere quella di “dribblare” il default, cercando di ristrutturare almeno una parte del proprio debito. L’obiettivo, secondo le parole del ministro dell’economia Martín Guzmán, è quello di «recuperare la sostenibilità del debito», ossia negoziare con alcuni dei propri creditori internazionali per ridurre il più possibile gli interessi e la somma totale da ripagare. Il governo è impegnato da settimane in negoziati per ristrutturare circa 65 miliardi di dollari con vari creditori internazionali.
Il totale del debito argentino è stimato essere sopra i 400 miliardi di dollari (circa il 90% del PIL). Gran parte di esso è costituito da debito estero denominato in dollari, di cui 57 miliardi sono dovuti al Fondo Monetario Internazionale e una minor parte è costituita da titoli locali.
Un governo già visto
Il governo attualmente in carica è guidato dal Partido Justicialista, storico partito “peronista” più volte alla guida del Paese. I peronisti sono una frangia politica argentina che si rifà alle politiche economiche e sociali della presidenza di Juan Domingo Perón, presidente fra il 1946 ed il ’55. La sua era una dottrina politica trasversale che metteva insieme elementi di socialismo, nazionalismo e alla ricerca di una terza via economica, dando particolare attenzione ai ceti lavoratori, venendo spesso però tacciata di populismo.
Durante la sua presidenza infatti, Perón impiegò gran parte della spesa pubblica per garantire un ampio welfare state alla popolazione, a scapito però degli investimenti e della produttività: un modello insostenibile nel lungo periodo. Ciò nonostante, le politiche economiche ed il benessere di quegli anni rimangono d’ispirazione per i peronisti ancora oggi; da qui la loro storica tendenza ad una certa “generosità” nello spendere le risorse pubbliche, spesso prestando scarsa attenzione alla sostenibilità dei bilanci.
Il mistero argentino
L’economia argentina rappresenta da sempre una sorta di mistero per molti economisti. Secondo una celebre frase di Simon Kuznets, premio nobel per l’economia nel 1971, al mondo esisterebbero 4 tipi di Paesi: i Paesi sviluppati, i Paesi sottosviluppati, il Giappone, che nessuno sa perché cresca, e l’Argentina, che nessuno sa perché non cresca.
Nel 1906 l’Argentina era il quinto Paese al mondo per PIL pro capite. I suoi abitanti erano in media più ricchi persino dei francesi e dei tedeschi. La sua storia politica nella seconda metà del ‘900 tuttavia è stata caratterizzata da una forte instabilità politica. Il continuo susseguirsi di periodi più o meno democratici, stroncati da golpe e giunte militari al potere, ha impedito l’instaurazione di un sistema economico duraturo.
Al contrario di Paesi tradizionalmente più stabili, in cui il sistema economico “sopravvive” al cambiare dei governi, in Argentina le diverse leadership che si sono susseguite hanno spesso tentato di apportare cambiamenti radicali al modello economico del paese. Il risultato è stato una sorta di schizofrenia in politica economica, in cui governi protezionisti che alzavano barriere e dazi si alternavano a governi più liberali, che tentavano di aprire il Paese il più possibile. Una forte discontinuità politica ed economica che è culminata nella grave crisi economica dei primi anni 2000.
Nel corso della sua storia inoltre, l’Argentina ha registrato un bilancio pubblico quasi perennemente in rosso. Il disavanzo statale infatti (ossia la differenza fra le entrate e le spese dello Stato) è risultato negativo in 107 anni sugli ultimi 117. Di fatto lo Stato argentino non è quasi mai riuscito a mantenere in pari il proprio bilancio.
Quando le spese superano le entrate, per far quadrare i conti il governo di uno Stato si trova di fronte a tre possibilità: stampare nuova moneta (facendo però impennare l’inflazione e mandando in fumo gli stipendi e i risparmi dei cittadini), aumentare le tasse (a scapito del proprio consenso fra la popolazione) oppure indebitarsi, emettendo titoli di stato che possono essere comprati nel paese o all’estero.
La “non-svolta” di Mauricio Macri
Un eccessivo indebitamento però non è affatto sostenibile nel lungo periodo, specie in situazioni di scarsa crescita economica. L’ingente ricorso a questo strumento per sostenere le proprie spese ha reso l’Argentina “uno dei paesi del mondo che più dipende dal finanziamento esterno”, come ha ammesso anche l’ex presidente Mauricio Macri nel 2018.
La sua elezione nel 2015 era parsa come uno spiraglio di luce nella storia politica del Paese. Di orientamento liberal-conservatore, l’ex sindaco di Buenos Aires prometteva di essere l’uomo della svolta dopo 12 anni di governi peronisti guidati dai due Kirchner — prima Nestor e poi la moglie Cristina. Neanche Macri tuttavia è riuscito a risollevare le sorti del paese, e la sua sconfitta nel 2019 ha riportato i peronisti al governo, con il ritorno di Cristina Kirchner, questa volta come vice-presidente.
Il negoziato con i creditori
L’attuale governo Fernandez-Kirchner, nella speranza di arrivare ad una soluzione con i creditori internazionali, ha più volte rimandato la data di scadenza per le negoziazioni, prima al 22 maggio e poi al 2 giugno, senza mai giungere ad un accordo.
Nella trattativa per ristrutturare i circa 65 miliardi di dollari di debito infatti le parti rimangono ancora distanti. L’offerta iniziale del governo Fernandez proponeva tre anni di “grazia”, in cui non sarebbe avvenuto alcun pagamento fino al 2023, tagliare di due terzi di tassi di interesse (passando da una media del 7% al 2,3% circa) oltre ad un taglio del capitale del 5,4%. Non stupisce che l’offerta sia stata respinta in blocco da tutti i principali creditori. L’offerta successiva del governo argentino prevedeva invece la riduzione del periodo di grazia ad un solo anno e un minor taglio degli interessi. Ma anche questa offerta non ha convinto i creditori.
La grande difficoltà di questo negoziato sta nel conciliare da un lato la necessità del governo di stabilire termini che l’Argentina sia in grado di rispettare, e dall’altro il dover dialogare con un grande numero di obbligazionisti privati diversi fra loro, con obiettivi altrettanto differenti.
Lo scoglio più grosso però rimane sicuramente in seno al governo argentino, che continua a spendere più di quanto incassi. Senza un serio aggiustamento della propria spesa pubblica e una rapida ripresa economica, l’Argentina continuerà sul suo solito percorso, e l’eventuale ristrutturazione del debito servirà soltanto a ritardare di qualche istante la caduta nel dirupo.
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Orizzonti Politici è un Think Tank composto da circa 40 studenti e giovani professionisti che condividono l’interesse per la politica e l’economia. Il loro obiettivo è quello di contribuire al processo di costruzione dell’opinione pubblica e di policy-making nel nostro Paese.