Società

KATRINA
E L’11 SETTEMBRE

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(WSI) – Chi ha visto il duello televisivo fra Gerhard Schroeder e Angela Merkel se ne sarà accorto: il momento in cui il cancelliere ha riscosso più successo presso gli spettatori è stato quando ha fatto allusione all’uragano Katrina, che continua a far soffrire l’America. Ecco un evento, ha detto, che mostra quanto sia essenziale uno Stato che funzioni, e che sia forte là dove l’economia di mercato e la società non sono in grado di intervenire con le sole proprie risorse e con la necessaria sveltezza. In altre parole: ecco dove la natura e le virtù etiche individuali devono esser completate dal monopolio legale che lo Stato esercita sulla violenza, dall’organizzazione meticolosa della cosa pubblica, e dall’imperio della legge – del nòmos. Tutte cose che negli Stati Uniti hanno vacillato, nell’ultima prova cui son stati sottoposti.

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Il cancelliere socialdemocratico potrebbe vincere le elezioni anche a causa di questo cataclisma, che gli europei hanno visto alla televisione e di cui hanno letto sui giornali. La catastrofe nel Golfo del Messico mette paura a chiunque, fa vedere come la civiltà sia una pellicola esilissima, sotto la quale si spalancano strapiombi. La de-civilizzazione è qualcosa che può esplodere da un momento all’altro, e questo l’uomo europeo lo sa per averlo vissuto, provocato. Soprattutto la Germania l’ha vissuto in prima persona, nella prima metà del ‘900, e molte sue paure e circospette prudenze nascono da questa coscienza, che ha radici profonde. È la seconda volta che Schroeder fa entrare nella coscienza dei connazionali cataclismi apparentemente lontani, che gli ridanno forza nelle battaglie elettorali e gli permettono di difendere non solo un bilancio di governo ma un modello di convivenza sociale e di civiltà.

La prima volta fu alla vigilia della guerra in Iraq, dopo il disastro che prese la forma dell’11 settembre, esattamente quattro anni fa. La seconda nasce dall’inondazione Katrina, a pochi giorni dal voto del 18 settembre. Lo scontro non è chiaro come nel 2002 (pace contro guerra, diritto internazionale contro unilateralismo di Bush). Ma ancora una volta siamo messi di fronte a scelte di fondo, che dividono l’esperienza americana da quella europea: scelte che riguardano il delicatissimo equilibrio tra Stato e società civile, tra fiducia nella legge e fiducia nella natura, tra aspirazioni alla giustizia sociale e aspirazioni alla libertà individuale.

L’uragano Katrina è una catastrofe in due tempi, e per questo influenzerà durevolmente le passioni europee, quelle americane, e il rapporto fra esse. È una catastrofe della natura (non si sa quanto suscitata dall’agire dell’uomo sul pianeta) ed è al tempo stesso catastrofe dello Stato, delle leggi che tengono insieme la società, delle regole che impongono la protezione dei più deboli e indifesi nell’ora dei flagelli. Timothy Garton Ash ha ragione a evocare Jack London, e la de-civilizzazione descritta dallo scrittore nella vita d’un cane, Buck, che sente il Richiamo della Foresta e che percorre a ritroso il cammino fin qui compiuto, ridivenendo lupo. Che abbandonando le regole apprese riscopre la «legge del bastone e delle zanne». L’uomo non è diverso dal cane Buck, se non addestra di continuo se stesso. Anch’egli può sperimentare la regressione, ed «esser estromesso dal cuore della civiltà per venir scaraventato nel cuore delle cose primordiali».

La storia occidentale ha conosciuto simili flagelli, che hanno svelato la fragilità dell’uomo incivilito e infranto la fede nel suo ininterrotto migliorare: la peste di Atene nel 430 avanti Cristo, raccontata da Tucidide; il terremoto di Lisbona nel 1755, trasformato in lezione di mutata convivenza civile da Kant; lo scatenarsi delle guerre democratizzate e totali nel ‘14-’18, che hanno fatto vedere i baratri dei nazionalismi. Il pensiero europeo fu da questi eventi sconvolto e diviso, come oggi è sconvolto e diviso – assieme al pensiero americano – dalle immagini di sofferenza e caos a New Orleans. È significativo che questa paura della de-civilizzazione si condensi con speciale intensità in Germania, che poche generazioni fa scaraventò se stessa «nel cuore delle cose primordiali». Ed è significativo il prestigio che alcuni politici tedeschi hanno acquisito nel dopoguerra, presentandosi come baluardi contro flagelli naturali.

Helmut Schmidt conobbe un destino simile nel ‘62, quando fronteggiò l’alluvione di Amburgo nella qualità di responsabile cittadino per la sicurezza. Schroeder cancelliere mostrò analoghe abilità, quando l’Elba inondò la Sassonia alla vigilia delle elezioni del 2002. Difendere un modello di civiltà e non solo una politica è spesso anche un modo tedesco di fuggire il mondo, fantasticando una sorta di giardino separato e mostrando disinteresse per la cooperazione internazionale. Un giardino magari protetto dal petrolio di Putin, ma un giardino rimpicciolito, nazionale. La previdente cura di sé spinge la Germania lontano dall’America e anche dall’Europa, spesse volte. Ma quel che accade nelle menti dell’elettore tedesco è comunque importante, perché può accadere nelle menti di altri europei.

Quel che accade nelle menti del vecchio continente non è nuovo, ma Katrina può dilatarlo.Anche se influenzati dal modello americano, anche se affascinati dalla sua cultura, gli europei non vogliono squilibri troppo grandi, tra natura e legge. Non vogliono che sia abbandonato lo Stato forte a vantaggio delle libertà individuali e della società che si regola con le sole proprie forze. Non condividono l’ottimismo sociale americano, che in questi giorni è messo a dura prova nel Golfo del Messico. Di fronte alle sciagure vogliono che lo Stato reagisca tempestivo, che sia preparato, che si occupi di quel che l’economia di mercato non può fare. Molto può esser lasciato alla natura, ma l’uomo deve poter anche comandare su di essa, e se necessario far prevalere la legge perché il contratto sociale non si rompa. Tra le cose che vanno regolate dallo Stato e con la legge ci sono la povertà, e la convivenza nello stesso spazio fra culture o religioni diverse.

Qui è la più vera catastrofe di Katrina: 37 milioni di uomini vivono in America sotto la soglia dell’estrema povertà, e l’uragano ha mostrato come a soffrire e a morire fossero in prima linea i poveri e i neri. Negli anni di Bush l’aumento della povertà negli Stati Uniti è stato del 17 per cento (1,1 milioni di poveri in più nel 2004, rispetto all’anno precedente). Anche la mortalità infantile è tra le più alte del mondo, scrive Nicholas Kristof sul New York Times. Il melting pot dissocia i cittadini invece di associarli, l’America è circondata dalla povertà del mondo come da quella interna, e questo getta una luce sinistra sui due suoi recenti disastri: l’11 settembre e Katrina. Lo scrittore di fantascienza James Graham Ballard è severo, sugli eventi in Louisiana: essi equivalgono a una sorta di gigantesca «pulizia etnica, simile a quella attuata in Jugoslavia durante le guerre degli Anni Novanta». In molti commenti americani l’Europa sta così riacquistando spazio, prestigio: il modello liberista dell’attuale amministrazione è criticato, l’attenzione si concentra con crescente curiosità sui modi che hanno gli europei di riformarsi senza rinunciare completamente allo stato sociale.

Disastri delle proporzioni di Katrina sarebbero forse vissuti meglio in Europa, non fosse altro perché il vecchio continente ha – su se stesso – visioni meno fiduciose, più realistiche e diffidenti. Perfino i conservatori inglesi considerano che Bush stia perdendo battaglie cruciali – Kenneth Clarke definisce la guerra in Iraq un «errore catastrofico» – e che il rapporto con Washington vada corretto. Ballard lo dice chiaramente, sull’ultimo numero della Zeit: il metodo d’integrazione sociale ed etnica in Europa funziona meglio di quello americano, la lotta alla povertà e alla discriminazione razziale negli Stati Uniti è da ricominciare.

Lo scrittore di fantascienza non è l’unico a parlare così. Jedediah Purdy, che insegna legge nella Carolina del Nord, scrive che lo stato moderno non ha ancora messo radici nella cultura politica americana, che una sorta di ottimismo metafisico spinge i dirigenti statunitensi a puntare sempre di nuovo sulla natura in grado di aggiustarsi da sola, senza esser regolata dallo stato. Anche qui l’Europa ha più saggezza: «Generazioni di europei hanno sperimentato sulla propria pelle, nello scorso secolo, il tracollo di città e società a seguito di guerre e totalitarismi. Nulla di tutto questo è successo negli Stati Uniti» (Purdy, Die Zeit, 8 settembre). Non c’è poi, in Europa, un permanente stato d’animo apocalittico: anche questa tentazione, forte nella politica americana, è guardata con sospetto in un continente che dall’apocalittismo è stato in passato travolto.

Quest’America è in difficoltà: è una superpotenza grande, solitaria, e in parte assediata. La prima avvisaglia è avvenuta l’11 settembre 2001, quando gli aerei terroristi abbatterono le torri di New York. Il nemico, allora, veniva da fuori e la solidarietà del mondo occidentale durò poco, giusto il tempo di una spedizione in Afghanistan. Quel che è successo dopo ha reso più che mai ardua la lotta al terrorismo globale, e anche la stabilità in Iraq. Adesso il male viene da dentro, e molti americani spaventati hanno l’impressione di vedere in patria il failed state, lo stato minacciato da fallimento, che l’amministrazione teme fuori casa. Forse queste esperienze riavvicineranno America ed Europa, nel lungo periodo, se è vero che è nella cognizione del dolore che gli uomini apprendono a guardarsi l’un l’altro e capirsi.

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