di Eugenio Francesco Chiaravalloti, studio Legale Martinez & Novebaci
L’emergenza sanitaria legata al coronavirus ha offerto, tra le altre cose, l’occasione di trattare un tema spesso considerato accademico: il concetto di forza maggiore e la sua applicabilità; o meglio, applicazione.
In virtù del c.d. lockdown, difatti, sono nate svariate circostanze in cui il sinallagma contrattuale è venuto a mancare, vuoi per le restrizioni governative, vuoi per le modalità operative della prestazione medesima, vuoi per le condizioni sanitarie che hanno colpito una delle parti.
Un evento di simili dimensioni e profondità non poteva non investire il complesso equilibrio dei rapporti contrattuali, e dunque, a monte, i principi giuridici stessi che li regolano.
Quando si parla di forza maggiore si fa riferimento a una locuzione non menzionata per esteso dal legislatore, ma solo richiamata de facto in diversi àmbiti del Codice Civile (v. artt. 1218, 1256, 1258, 1463-1467); si può dunque ricondurre tale concetto a quella fattispecie in cui fatti (obiettivamente) straordinari, non prevedibili (per conoscenza e conoscibilità media), non dipendenti (neanche indirettamente) e non risolvibili (oltre ogni ragionevole sforzo) dal debitore intervengono nell’esecuzione del contratto.
Di fronte alla forza della natura, ineludibile e incontrollabile, il diritto, se non può evitare, può, invero, regolare con anticipo le conseguenze, offrendo una sorta di prevenzione formale, come si ricava dal combinato disposto dei summenzionati articoli.
Il debitore è sicuramente il protagonista principale: di fronte al ritardo o all’inadempimento, egli risponde se non prova una fattispecie liberatoria. Ma definire l’impossibilità, e applicarla tout court, è tutt’altro che immediato, atteso che la prestazione potrebbe divenire solo parzialmente, ovvero temporaneamente, impossibile. Da qui il “dipende”.
Trattasi quindi di valutare, nel concreto, quanto sia scusabile il ritardo o l’inadempimento, e quindi quanto rilevante sia stato, rispetto alla specifica obbligazione, l’evento straordinario.
Per esempio, il debitore potrebbe optare per una ragionevole soluzione alternativa, anche se più sconveniente, senza che ciò possa configurare un’eccessiva onerosità sopravvenuta. Egli non dovrebbe quindi considerarsi liberato per la sola difficoltà causata dall’accadimento in sé, ma contemperare i propri sforzi – che devono essere sempre tesi al soddisfacimento del creditore – con gli strumenti ragionevolmente presenti nel suo ventaglio di opzioni. In ultima analisi, anche l’adempimento tardivo può essere non solo accettato ma preteso, e a ragione, salvo sia stato pattuita l’essenzialità del termine.
L’importanza di scrivere un buon contratto
L’infinita variabilità degli accadimenti, a fronte dei quali la legge tenta di porre un minimo comune denominatore, fa sì che sia necessaria, di volta in volta, un’analisi ponderata e sartoriale, che coinvolge la volontà delle parti, l’utilità economica sottesa, i mezzi scelti e le soluzioni concretizzabili.
Per favorirle, sarà sempre utile inserire una previsione contrattuale ad hoc, la c.d. hardship clause, in virtù della quale le parti regolano preventivamente le possibili conseguenze, modalità operative e soluzioni di fronte a un evento di forza maggiore, potendo in definitiva stabilire che dopo un determinato lasso di tempo (es. 3 mesi) senza che la prestazione possa riprendere, il contratto si risolve di diritto. In questa clausola potrà altresì essere previsto un effetto sospensivo sulle penali eventualmente convenute per il ritardo, di modo che non si configuri un abuso della posizione creditoria.
Pertanto, proprio per evitare il consolidarsi di infruttuosi squilibri, è necessario che entrambe le parti si attivino con la migliore diligenza per superare le avversità e mantenere vivo il contratto, agendo mutualisticamente per il fine superiore di garantire un’utilità reciproca ed effettiva, specie nel lungo termine, pur a fronte di un sacrificio parziale, estemporaneo e condiviso.