Economia

Grafico della settimana: in Italia il record di giovani che non lavorano e non studiano

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Sono chiamati NEET, dall’acronimo inglese “Not in Education, Employment or Training”, e sono giovani inattivi, che non studiano, non lavorano e non seguono una formazione professionale, esclusi sia dal mondo dell’educazione che dal mercato del lavoro.
Una condizione di disagio e esclusione sociale, che nel 2019 ha coinvolto il 16,4% dei giovani europei nella fascia di età 20-34 anni, circa 12,7 milioni.

I dati Eurostat evidenziano che nel 2019 le percentuali minori (sotto il 10%) di giovani NEET sono state registrate a Malta, in Olanda, Lussemburgo e Svezia. 9 invece gli Stati con percentuali maggiori della media europea (16,4%).
Tra questi, spiccano l’Italia e la Grecia, con più di un quarto dei giovani 20-34enni che non lavorano né studiano (rispettivamente 27,8% e 25,1%). La percentuale di giovani NEET italiani è maggiore di 3,8 volte rispetto ai coetanei svedesi (7,3%).

Come si vede dal grafico, l’inattività colpisce in misura maggiore le donne. Nel 2019, a livello europeo, le donne NEET tra i 20 e i 34 anni erano il 20,8%, mentre il corrispettivo maschile era di 8,6 punti percentuali minore (12,2%).
Una differenza di genere che si conferma anche per l’Italia, dove i giovani NEET sono al 22,5% tra gli uomini e al 33,2% tra le donne.

Sempre nel 2019, ci sono stati 9 Paesi in cui la proporzione di giovani donne NEET era di almeno 10 punti percentuali più alta dei coetanei maschi. Tra questi, la differenza è di 10-11 punti in Italia, Grecia e Bulgaria, 14-17 punti in Estonia, Polonia, Romania e Ungheria, arrivando ad un gap di 19,1 punti in Slovacchia e 22,9 in Repubblica Ceca.
Inoltre, la differenza tra le percentuali maschili e femminili aumenta con l’aumentare dell’età. Per i giovani NEET europei tra i 20 e 24 anni il gap di genere è di 1,8 punti, per i 25-29enni di 9,3 punti e per i 30-34enni arriva a 13,5.

Secondo il rapporto Eurostat, tra i fattori che contribuiscono a questo gap ci sono sia convenzioni e pressioni sociali, che limitano il ruolo femminile alla sfera familiare e dirigono le donne verso percorsi professionali più precari e meno remunerativi, che problemi nel mercato del lavoro, come il re-inserimento dopo una gravidanza e la conciliazione vita-lavoro.

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