A cura di Julian Howard di GAM Investments
La correzione del -10,4% messa a segno dal Dollar index rilevato da Bloomberg dal 20 marzo al 31 agosto è stata presentata come prova dell’imminente fine del dollaro come unica valuta di riserva al mondo – e dello status di superpotenza dell’America.
Per chi investe in una valuta diversa dal dollaro, questo drammatico scenario merita un’attenta valutazione, poiché molti investimenti popolari come l’S&P 500, il Nasdaq 100, i Treasury e persino l’oro sono tutti quotati in dollari.
Anche se gli investitori non statunitensi in questi asset potrebbero non averlo ancora notato, data la loro forte performance di fondo, il calo del biglietto verde cominciato a marzo avrà avuto un effetto silenzioso ma corrosivo sui rendimenti netti, poiché la performance in dollari va tradotta in una valuta “domestica” più forte, come l’euro o la sterlina.
Se il calo del dollaro dovesse continuare, in concomitanza con l’indebolimento del momentum di queste attività statunitensi, potrebbe avere profonde conseguenze sui portafogli degli investitori non statunitensi.
La crescita del debito pubblico non preoccupa
Se da un lato vi è la tentazione di dipingere un quadro di una grande crisi del dollaro che si sta delineando davanti a noi, dall’altro il contesto storico sembra non sostenere questa tesi.
Nella storia moderna ci sono state solo due grandi valute di riserva, la prima delle quali è stata la sterlina.
La perdita di status della sterlina è stata lenta e tortuosa, come il declino dell’Impero britannico stesso. Ci sono volute due guerre mondiali rovinose perché cedesse il terreno agli Stati Uniti come valuta primaria del commercio internazionale.
Se è vero che il deficit di bilancio degli Stati Uniti è ora destinato a raggiungere un sorprendente 15% del PIL quest’anno, il che fa pensare a un’analoga diminuzione della potenza di fuoco finanziaria, il Tesoro statunitense può prendere in prestito a meno dell’1%, mentre il ricorso ad aiuti esterni non è così vitale come lo è stato per la Gran Bretagna, dato che la Federal Reserve sta acquistando aggressivamente il debito statunitense come parte del suo programma di quantitative easing.
Moneta di riferimento nel commercio internazionale
Gli Stati Uniti godono anche di una posizione privilegiata e consolidata del dollaro, che difficilmente verrà meno in tempi brevi. In primo luogo, un processo di dollarizzazione osservato negli ultimi decenni ha visto molti paesi e i loro risparmiatori allineati a vari livelli con il dollaro ai fini della stabilità e della riduzione dei costi di finanziamento.
Le operazioni del commercio internazionale sono ora per lo più denominate in dollari , ad esempio il 60% delle importazioni della Turchia ha un prezzo in dollari, mentre solo il 6% del totale delle sue importazioni proviene effettivamente dagli Stati Uniti. Ciò è dovuto in parte alla convenienza, ma anche a un effetto di rete virtuoso.
L’aumento della fatturazione in una valuta tende a creare una domanda per quella valuta come riserva di valore sicura, abbassando i costi di finanziamento in quella valuta e aumentando la domanda di fatturazione in quella valuta. La stabilità del dollaro ha quindi garantito una posizione dominante che alimenta, tramite un circolo virtuoso, lo stesso senso di stabilità.
È stato sostenuto che una minaccia più grave per il dollaro viene dal renminbi cinese.
È vero che la politica aggressiva cinese ha garantito che la sua valuta sia ora utilizzata nel 25% del commercio cinese, mentre nel 2010 questo valore era prossimo allo zero.
Tuttavia, la piena adozione globale del renminbi richiederà ancora la convertibilità, la liberalizzazione del conto capitale (cioè nessuna restrizione a portare il denaro fuori dal Paese), così come la stabilità e la fiducia nelle istituzioni finanziarie cinesi, compresa la sua banca centrale.
Quest’ultimo punto è cruciale: la Fed è ben rispettata proprio perché è indipendente e negli ultimi anni ha combattuto le interferenze politiche. Questo non è semplicemente il caso della banca centrale cinese.
Preoccupa il differenziale sui tassi
Il recente e modesto declino del dollaro (per gli standard storici) si spiega meglio con le forze di mercato a breve termine, in particolare con i differenziali dei tassi di interesse.
Dati due diversi tassi d’interesse per due mercati obbligazionari di alta qualità, gli investitori tenderanno a scegliere il tasso d’interesse più alto.
A sua volta, il flusso di capitali verso tali obbligazioni spinge verso l’alto la valuta associata. Questo è stato il caso del dollaro USA contro l’euro. Alla fine di agosto 2019, il Treasury a 10 anni offriva oltre il 2% di rendimento in più rispetto al bund tedesco a 10 anni, e un euro valeva solo 1,10 USD. Un anno dopo, il Treasury statunitense a 10 anni offre solo l’1% circa di rendimento in più rispetto al suo equivalente tedesco, mentre un euro vale 1,20 USD.
Se si accetta il fatto che i differenziali dei tassi di interesse esercitano una grande influenza su una valuta, allora è possibile fare alcune ipotesi intuitive su ciò che potrebbe accadere in seguito.
Il limite superiore dei tassi d’interesse della Fed è sceso allo 0,25%, in territorio appena positivo, e con il peggioramento della situazione economica statunitense è cresciuta la pressione sull’istituto per fare ancora di più.
Alla fine di agosto, il presidente della Fed Jerome Powell ha debitamente annunciato che qualsiasi aumento dell’inflazione al di sopra del 2% sarà tollerato per brevi periodi di tempo. In altre parole, i tassi di interesse rimarrebbero bassi anche se l’inflazione ritornasse.
Tuttavia, la Fed si è fermata prima di una piena “europeizzazione”, escludendo fermamente i tassi di interesse negativi già a maggio, in contrasto con il “whatever it takes” della Bce in risposta alla stagnazione dell’economia dell’Eurozona. Un po’ più di debolezza del dollaro potrebbe essere possibile, tuttavia se la Bce persegue una politica dei tassi negativa ancora più profonda – e la retorica suggerisce un’apertura in questo senso – allora i differenziali si ribalteranno sicuramente a favore del Treasury statunitense e del dollaro.
Se da un lato è facile lasciarsi affascinare da una narrazione del declino epocale degli Stati Uniti, dall’altro gli andamenti storici e il quadro strutturale del dollaro nel sistema finanziario e commerciale internazionale suggeriscono che un tale declino richiederà più dei soli cinque mesi di calo della valuta di quest’anno.
Alcuni dei commenti negativi possono essere collegati ai recenti disordini sociali e politici e alla natura acrimoniosa del dibattito politico in vista delle elezioni di novembre.
Va anche notato che due dei “cross” più popolari del dollaro, l’euro e la sterlina, si trovano ad affrontare a loro volta profonde problematiche strutturali.
L’eurozona, già alle prese con la bassa crescita e la difficile situazione demografica, si trova a fronteggiare un precipitoso calo della domanda globale mentre il suo modello economico si basa proprio sulle esportazioni di manufatti verso il mondo.
Il Regno Unito, dal canto suo, si trova ad affrontare non solo una crescita colpita dalla pandemia, ma anche l’uscita formale dall’Unione Europea con pochi segni di un accordo commerciale e, alla fine, un rischio molto reale di rottura del Regno Unito stesso attraverso l’indipendenza scozzese.
Il futuro per il biglietto verde
A nostro avviso, il caso più forte contro ulteriori cali del dollaro risiede sicuramente nella natura più prosaica dei differenziali dei tassi di interesse. E il recente restringimento di questi tra gli Stati Uniti e l’euro, tra gli altri, sembra destinato ad essere vicino ai suoi limiti.
Infine, va ricordato che gli Stati Uniti offrono agli investitori l’accesso a mercati e settori semplicemente non disponibili altrove. I potenti indici S&P 500 e Nasdaq 100, con le loro aziende innovative e il loro management di alta qualità, non si ritrovano facilmente in altre regioni.
Inoltre, i Treasury statunitensi, sostenuti dalla piena fiducia e dal credito del governo americano, offrono la sicurezza richiesta dagli investitori istituzionali di tutto il mondo.