*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – L’epoca del basso costo del denaro sta giungendo (almeno temporanamente) alla conclusione. In pratica, sta finendo il lungo periodo in cui il mondo è stato inondato da un’enorme quantità di liquidità messa a disposizione dalle banche centrali per superare la crisi determinata dallo scoppio della bolla speculativa formatasi nei mercati finanziari negli anni Novanta.
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Il cambiamento di clima lo si avverte sia al di qua sia al di là dell’Atlantico ed è alimentato dalla «resurrezione» della paura dell’inflazione causata dall’impennata del prezzo del petrolio. Lunedi’ scorso la banca centrale americana, come era ampiamente previsto, ha deciso di alzare al 4% i tassi a breve statunitensi e soprattutto ha chiaramente ribadito che continuerà ad alzarli poiché ritiene prevalenti i pericoli sul fronte della stabilità dei prezzi. Oggi, ci si aspetta che la Banca centrale europea ponga le premesse per un rialzo dei tassi in Eurolandia in dicembre, che porrebbe fine al lungo periodo in cui i tassi europei sono rimasti fermi al 2%.
L’eventuale decisione della Bce di stringere i cordoni monetari verrebbe seguita immediatamente anche dalla Banca Nazionale Svizzera, che ha più volte sottolineato il desiderio di ritornare al più presto ad una politica monetaria neutrale e che è confortata in questo suo proposito dai dati positivi che provengono dall’economia elvetica. Persino in Giappone si comincia ad ipotizzare l’abbandono della politica monetaria espansiva seguita finora.
I segnali di questo cambiamento di clima non erano stati fino a poco tempo fa presi molto sul serio dal mercato dei capitali. Addirittura negli Stati Uniti i successivi rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve erano coincisi con un calo dei tassi a lungo termine. Nelle ultime settimane la realtà è però cambiata. I rendimenti sui titoli di stato decennali americani sono saliti al 4,6%, mentre quelli sui titoli tedeschi sono saliti in una settimana dal 3,24% a oltre il 3,4%. Questa tendenza al rialzo del costo del denaro non è sorprendente e soprattutto è ancora di entità limitata, ma è probabilmente destinata ad essere di maggiori proporzioni di quanto fossero le aspettative dei mercati almeno fino a poco tempo fa. Questi movimenti sono dovuti alla paura che l’inflazione possa rialzare la testa. E in effetti l’impennata del prezzo del petrolio ha spinto in settembre al 4,7% l’inflazione annua negli Stati Uniti e al 2,5% in Eurolandia. Anche in Svizzera l’indice dei prezzi al consumo è salito e ha raggiunto in settembre l’1,4%.
In base a questi dati la conclusione sembra scontata: «è ritornata l’inflazione». La questione non è però così semplice. Infatti questo rincaro, che è quello che conta per i portamonete delle famiglie, rischia di essere un fenomeno temporaneo dovuto al petrolio e non l’avvio di un processo di rincorsa tra prezzi e salari, che è la caratteristica principale dell’inflazione. In altri termini, l’indice dei prezzi al consumo potrebbe ripiegare non appena superato l’impatto del caro-petrolio, come del resto suggerisce il tasso di inflazione depurato dall’andamento dei prezzi dei prodotti energetici ed alimentari, che negli Stati Uniti è fermo al 2% e in Eurolandia all’1,3%. Infatti non si sono segnali che indichino tensioni sul fronte salariale che potrebbero innescare una spirale inflazionistica. È quanto sembrano pensare anche i mercati dei capitali, dato che, ad esempio, in America l’attuale livello del costo del denaro rimane inferiore all’inflazione. In altri termini, i tassi reali sono negativi.
Diversa è la situazione in Europa e in Svizzera, dove i tassi a lunga restano positivi e quindi proteggono ancora i risparmiatori dall’erosione del valore della moneta causato dall’inflazione. Resta comunque il fatto che le banche centrali mostrano chiaramente l’intenzione di voler prevenire piuttosto di voler curar il male. Vi è quindi il rischio che una loro azione preventiva eccessiva possa stroncare non solo l’inflazione, ma anche la crescita economica, che soprattutto in Europa e in Svizzera appare ancora modesta e soprattutto fragile. In tal caso la fase di rialzo del costo del denaro durerebbe veramente poco.
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