*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Oggi a Davos si apre l’ormai tradizionale appuntamento del World Economic Forum che quest’anno ha per tema centrale «L’imperativo creativo» del mondo occidentale di fronte alla crescente sfida posta dal boom economico e commerciale di Cina ed India. Una sfida che – come ha dichiarato la vera «anima» del Simposio Klaus Schwab – «sta spostando ad est il centro di gravità del mondo».
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La scelta di questo tema è significativa: le discussioni del Forum passano dall’enfatizzazione delle virtù della globalizzazione alle sfide che l’apertura dei mercati sta ponendo ai paesi di vecchia industrializzazione. La risposta suggerita dagli organizzatori è quella classica e in pratica già preannunciata nel titolo di quest’anno: i paesi di vecchia industrializzazione potranno superare questa sfida solo se sapranno innovare, creare nuovi prodotti ed essere creativi. È evidente che «rebus sic stantibus» non vi è altra via percorribile. Ma è pure evidente che questa è una risposta che elude i problemi posti dall’apertura dei mercati. Inoltre essa non tiene conto che il monopolio dell’innovazione e della creatività non è una prerogativa dei paesi occidentali.
Anzi, a molti è già chiaro che il boom dell’industria informatica indiana non tocca un settore a basso valore aggiunto e che la concorrenza cinese non è destinata a manifestarsi solo nei prodotti tessili e nei giocattoli.
A questo scopo è forse utile fare capo ad un Rapporto dell’Unesco appena pubblicato dal significativo titolo: «La Cina sfida il predominio americano, europeo e giapponese nella ricerca scientifica». Secondo tale rapporto, «la tendenza più rilevante degli investimenti in Ricerca e Sviluppo è che i paesi asiatici nel 2002 hanno raggiunto 31,5% degli 830 miliardi di dollari che vengono spesi a livello mondiale (mentre nel 1997 erano solo al 27,9%). Questa crescita è dovuta alla Cina, dove nel 2002 vi erano più ricercatori che in Giappone e dove le spese in Ricerca e Sviluppo rappresentano l’1,23% del Pil cinese». Leader rimangono gli Stati Uniti con il 37% (ma era il 38,2% nel 1997), mentre gli investimenti dei paesi europei, scesi nel 2002 al 27,3% del totale, sono già inferiori a quelli dei paesi asiatici.
Come abbiamo già scritto negli scorsi giorni commentando un analogo studio europeo, il Vecchio Continente marcia a due velocità. Tra i più attivi in Ricerca e Sviluppo spiccano i paesi scandinavi e la Svizzera (ma solo grazie agli investimenti in R&D del settore farmaceutico), Germania e Francia fanno parte del gruppo di mezzo, mentre i ritardatari sono i paesi latini (Italia, Spagna, Grecia, ecc.). Ma c’è di più. L’appello del Forum di Davos non sembra trovare ascolto nemmeno tra i managers delle grandi società occidentali. Infatti uno studio del Credit Suisse ha messo in rilievo che gli investimenti in Ricerca e Sviluppo delle grandi società quotate in borsa continuano a diminuire in modo preoccupante, mentre aumentano le spese in marketing (basti pensare che i colossi della farmaceutica spendono di più per vendere le loro medicine che per scoprirne di nuove).
Il motivo è semplice: i managers sono misurati sui risultati trimestrali (in Svizzera semestrali) e quindi non si avventurano in investimenti in ricerche che danno i loro frutti solo a media e a lunga scadenza. D’altra parte, gli Stati, soprattutto quelli europei, assillati dall’obiettivo di far quadrare i conti, tagliano i fondi per la ricerca di base e non hanno il coraggio politico di varare serie riforme dei sistemi scolastici e soprattutto di quello universitario (ciò vale anche per il sistema universitario svizzero), che non sono più all’altezza dei tempi. Quindi l’imperativo dell’innovazione, della ricerca e della creatività, condivisibile in teoria, all’atto pratico si trasforma in uno slogan che non viene seguito né dal settore privato né da quello pubblico.
Per diventare veramente un imperativo, occorre infatti che i diversi paesi riprendano ad effettuare investimenti sia materiali (ad esempio nelle infrastrutture), sia immateriali (nella formazione e nella ricerca). Non è quindi un caso che proprio durante il Forum di Davos, dove si sbandiererà la via dell’innovazione e della creatività, le paure dell’Occidente emergeranno in tutta la loro forza nel corso dell’evento di politica economica più importante della settimana: l’incontro informale di una trentina di ministri del commercio teso a sbloccare i negoziati commerciali del Doha Round, incagliatisi ad Hong Kong sul dossier agricolo.
E non è neppure sorprendente che le dichiarazioni rilasciate in questi giorni dal Commissario europeo Peter Mandelson e dal negoziatore statunitense, Rob Portman, facciano prevedere che l’incontro promosso dal Consiglio federale si concluderà in una radicalizzazione delle rispettive posizioni. Infatti Mandelson ha dichiarato che l’Europa ha fatto proposte invalicabili sulla riduzione delle tariffe sui prodotti agricoli e che ora attende che India e Brasile offrano in cambio una riduzione delle tariffe sulle loro importazioni di prodotti industriali e un’apertura significativa sul dossier dei servizi. Gli Stati Uniti, che si sono schierati con India e Brasile, per bocca di Portman, ribattono che la proposta europea è insufficiente e che Bruxelles non sta rispettando l’impegno preso nel luglio 2004 di aprire in modo sostanziale il proprio mercato agricolo. È dunque «muro contro muro».
A Davos si manifesteranno dunque simbolicamente le due facce del mondo attuale: quella di coloro che credono e vogliono la continuazione delle politiche attuali e che invocano quindi maggiori sforzi in ricerca e creatività per superare le paure dell’Occidente e, dall’altra parte, un vertice informale che confermerà la «stanchezza politica» dell’Occidente nei confronti dell’attuale processo di globalizzazione.
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