di Andrea Crespi Bel’skij (EF Finance & Investments)
Il nostro pianeta è malato, stanco ed affaticato. In queste righe, tuttavia, non ci riferiremo al Covid, e nemmeno ai veleni dell’inquinamento, ma alle malattie che stanno mettendo a dura prova i sistemi economici globali.
Usciremo questa crisi fortificati nel corpo quando l’umanità sarà riuscita, naturalmente o grazie ai vaccini, a rendersi immune al virus, ma le economie probabilmente faranno molta più fatica, anche se gli “anticorpi naturali” del mercato stanno cercando e cercheranno di combattere queste infezioni.
La pandemia ha bruciato ricchezza, prospettive e consumi per un valore che si aggira intorno ai 9 mila miliardi di dollari, un valore superiore al totale delle economie di Germania e Giappone; il PIL degli Stati Uniti sta calando del 5.9%, quello Europeo crolla del 7.5%. Particolarmente pesante è la recessione nel Bel Paese.
Un altro grave problema è che la crisi sta colpendo duramente la parte più dinamica dei paesi: aziende, piccoli imprenditori, giovani. Resistono maggiormente, invece, le rendite di posizione, i salari garantiti, gli affitti, aumentando ulteriormente il disagio sociale e riducendo la produttività e l’efficienza dei sistemi economici nel loro complesso, soprattutto in Europa.
La cura che i governi di tutto il pianeta stanno somministrando alle economie globali è un incremento notevole di incentivi, spesa pubblica e sussidi. Il Fondo Monetario Internazionale prevede nel 2020 un incremento dei deficit pubblici tra il 10% e il 12% in tutte le principali economie (di cui 3-4% ascrivibile al funzionamento degli stabilizzatori automatici quali cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, etc. e circa il 9% ad interventi diretti di stimolo).
Anche le banche centrali stanno facendo la loro parte, immettendo grandissimi quantitativi di moneta nel sistema, a garanzia di tassi bassi a lungo.
Debito pubblico cresce a livelli record
Questa crisi sta facendo letteralmente esplodere il debito globale (privato più pubblico) che alla fine del catastrofico 2020 arriverà a sfiorare i 250mila miliardi di euro, cioè ben oltre quattro volte (432%) il prodotto mondiale lordo. La magnitudo del problema sta passando praticamente inosservata, grazie al fatto che il fiume di liquidità immessa nel sistema finanzia questo debito e per di più a tassi intorno allo zero. In Germania l’interesse sul Bund decennale è del -0.6%: significa che gli investitori pagano 1 euro per il “privilegio” di prestare 166 euro allo Stato tedesco per dieci anni!
Il pantagruelico ricorso al debito è stato praticato anche dai paesi tradizionalmente più conservatori e rigorosi in termini di deficit: la Germania ha sospeso i vincoli costituzionali del pareggio di bilancio dell’art. 115 e ha già previsto di incrementare il disavanzo pubblico per 96.2 miliardi di euro nel 2021, per 10.5 miliardi nel 2022 e 6.7 miliardi nel 2023.
È piuttosto evidente che le possibilità che questo debito venga rimborsato sono praticamente nulle, in qualsiasi parte del globo. Particolarmente evidente è il caso italiano, in cui il debito ad oggi ammonta a 2580 miliardi di euro, pari al 160% del Pil. Un importo del genere, utilizzando le banconote da 500 euro, tanto bistrattate per combattere l’evasione fiscale, richiederebbe uno spazio fisico di un cubo con circa 47 metri di lato!
Ma questo è un male comune a tutta l’UE che presenta un debito di 11.346 miliardi di euro. Anche con i tassi di interesse attuali, i più bassi della storia, il costo di questo debito non è trascurabile: 176.2 miliardi all’anno.
Non solo non si riuscirà a onorare il debito pubblico, ma non si potrà nemmeno sperare di pareggiare gli interessi, pur cercando di spremere cittadini e imprese con tasse e patrimoniali. Una massa debitoria simile potrà solo essere rinnovata, rifinanziata.
Necessariamente i tassi dovranno restare prossimi allo zero, anche per consentire ai Paesi di sostituire con nuovo debito il debito in scadenza: in Italia andranno a rimborso titoli per 341.3 miliardi nel 2021, per 210 mld nel 2022 e per 247.7 mld nel 2023. La Germania dovrà rifinanziare 119.5 miliardi di euro entro tre anni e 112.5 entro 5 anni.
Qualche economista avanza proposte relativamente ad una ristrutturazione del debito pubblico (soprattutto per i paesi più indebitati: Italia, Francia e Spagna). In parole povere, un taglio del debito ai danni dei creditori o al limite una trasformazione in debito perpetuo.
La ricetta dell’inflazione
L’esperienza della Grecia ha dimostrato che ad otto anni dalla ristrutturazione del 2012, il debito è maggiore di prima, e lo sarebbe anche se non ci fossero state le misure connesse alla pandemia. Inoltre un taglio del genere creerebbe una serie di fallimenti di istituti bancari, assicurativi e previdenziali che genererebbe un ingestibile problema sociale.
L’unica soluzione economicamente e socialmente accettabile è la monetizzazione del debito, con la conseguente svalutazione delle monete nazionali (euro in primo luogo) e la crescita dell’inflazione.
Abbiamo fatto una simulazione con un’inflazione al 5% – sicuramente rilevante, ma gestibile – mantenendo parità di costo del denaro, parità di debito pubblico e la tragica ipotesi di un PIL reale a crescita zero.
Ad oggi (31 dicembre 2020) il rapporto tra debito pubblico europeo e PIL ammonta al 98%, ben lontano dai parametri “imposti” dagli accordi europei. Con le nostre ipotesi molto conservative, in dieci anni si arriverebbe ad un rapporto debito/pil al 70%; in teoria (ma solo in teoria, perché alla lunga un’inflazione elevata creerebbe problemi sociali) si potrebbe scendere sotto l’utopistico 60% richiesto dai trattati europei entro il 2036.
L’elevata inflazione aiuterebbe anche le aziende, che in questo 2020 hanno per necessità e, in alcuni casi, per convenienza, iniziato ad indebitarsi pesantemente. In Italia, Il governo ha avviato un piano di sostegno dell’economia basato su una serie di garanzie pubbliche per i prestiti concessi alle aziende.
La garanzia Sace o del Fondo di di Garanzia Pmi coprono a seconda dei casi il rischio dell’80/90% dell’importo dei finanziamenti concessi dalle banche; questo significa che la garanzia pubblica tutela i creditori (principalmente le banche) per la quasi totalità dei finanziamenti concessi.
In un momento di profitti molto piccoli, il sistema bancario del nostro Paese ha accolto con favore la situazione: gli istituti possono finanziarsi a tassi prossimi allo zero dalla Banca Centrale Europea impiegando i capitali in operazioni garantite e protette dallo Stato in caso di insolvenza delle aziende, ma ad un tasso di interesse positivo e quindi di profitto. Come dire che il profitto è della banca, mentre i soldi sono della BCE ed il rischio è dello Stato!
Anche il debito privato non scherza
Tra il 17 marzo e il 7 dicembre 2020 sono pervenute al Fondo di Garanzia oltre 1,4 milioni di domande e di queste il 99% sono state accolte e finanziate. I finanziamenti accolti dal Fondo di Garanzia hanno registrato nel 2020 un balzo del 512% rispetto all’anno precedente, mentre l’importo garantito ha segnato una crescita del 666,3%.
Questo debito, se l’economia non ricomincia a crescere a ritmo molto sostenuto, è letteralmente una bomba ad orologeria. La quasi totalità dei prestiti hanno una durata di 72 mesi con 24 di preammortamento: l’art. 13 lettera m del Decreto Liquidità prevede appunto una scadenza di sei anni con sospensione del pagamento della quota capitale di due anni. Questo significa che fino a luglio- settembre 2022, le imprese pagheranno soltanto gli interessi, mentre successivamente le rate diventeranno decisamente più sostanziose, dovendo rimborsare anche il capitale.
Il peggio tuttavia arriverà nel 2023 quando le aziende che hanno richiesto prestiti assistiti da garanzia pubblica oltre al peso del rimborso della quota capitale dovranno fronteggiare anche l’aumento del costo della garanzia.
La “polizza” di Sace ha un costo crescente con il passare degli anni, secondo quanto stabilito dall’art. 1 lettera e dello stesso Decreto Liquidità. Inizialmente si tratta di un premio annuale dello 0.25% del valore della garanzia per le piccole imprese e dello 0.5% per quelle di maggiori dimensioni, oltre i 499 dipendenti.
Nel caso delle PMI il costo salirà a 50 punti base nel 2° e 3° anno, e a 100 punti base negli anni seguenti. Per le aziende con almeno 500 dipendenti, il costo sarà di 100 punti base per il 2° e il 3° anno, mentre arriverà al 2% dal quarto anno in poi. Considerando il fatto che ovviamente le aziende di maggiori dimensioni richiedono prestiti (e garanzie) maggiori, la massa di questo incremento dei costi, che va a sommarsi all’interesse, sarà decisamente rilevante.
Anche in questo caso l’inflazione aiuterebbe a ridurre il peso del debito.
Un ulteriore ragione per lasciare il costo della vita libero di crescere deriva dalla imprescindibile necessità di remunerare maggiormente dipendenti e professionisti più efficienti e produttivi rispetto a quelli meno efficienti. In questo momento gli stipendi garantiti (di dipendenti privati e soprattutto pubblici) stanno aiutando non poco a conservare il livello di domanda aggregata, ma in futuro è poco probabile che possano mantenere quello che qualcuno potrebbe definire un “privilegio” a discapito di altre categorie di lavoratori e piccoli imprenditori.
Oltretutto questi stipendi pesano non poco sui debiti pubblici e sulla collettività. Inoltre si è visto che spesso tra le categorie di lavoratori più duramente colpite dalla crisi e meno giuslavorativamente protette si trovano anche i soggetti più flessibili, efficienti e produttivi. È socialmente impensabile che in Europa si possa anche solo accennare ad un taglio degli stipendi del pubblico impiego, come avvenuto in Grecia. Mantenendo costanti i salari, l’inflazione di fatto opererebbe questa riduzione in termini reali. Dall’altro lato il sistema economico sarebbe spinto spontaneamente a valorizzare il lavoro più produttivo e/o più flessibile offrendo retribuzioni maggiori agli individui più appetibili sul mercato, creando di fatto un premio ed un incentivo per la maggiore efficienza lavorativa.
Probabilmente però per svariati anni non si potrà usare la parola “inflazione”, tanto sgradita alla politica europea: ricordiamoci che l’articolo 2 dello Statuto costitutivo della BCE indica come primo compito dell’Istituzione il mantenimento della stabilità dei prezzi (quindi la lotta all’inflazione) e addirittura lo antepone al sostenimento delle politiche economiche dell’UE. Verosimile quindi che l’inflazione ci sarà ma non verrà chiamata ufficialmente così.
Riteniamo che prima di sentire accettato il concetto dovremo attendere la seconda metà del 2023 dopo i risultati elettorali dei Paesi europei più deboli economicamente (le elezioni parlamentari in Spagna, Grecia e Portogallo), preceduti da campagne elettorali prevedibilmente molto ostili al rigore monetario e un possibile ammorbidimento della Germania che in quella data avrà in scadenza non meno di 122.5 miliardi di debito pubblico.