Articolo di Alberto Marracino, consulente finanziario di Vasto (Abruzzo)
Il livello di liquidità sui conti correnti ha aggiunto livelli record, non solo per il fenomeno pandemia. Se da un lato ciò rappresenta una grande opportunità per gli investitori e il paese, dall’altro nasconde anche dei rischi e delle conseguenze negative. L’analisi seguente cerca di identificare le ragioni del fenomeno, i suoi rischi e risvolti negativi e le possibili soluzioni.
Partiamo dall’analisi l’aumento dei depositi in conto corrente negli ultimi anni e soprattutto durante il 2020. Dal report mensile dell’ABI del gennaio 2021 notiamo come, nel triennio 2016-2018, i depositi della clientela residente siano cresciuti di circa 160 mld, con incrementi sostanzialmente simili a quelli dei decrementi delle obbligazioni detenute, mediamente 50 mld annui, lasciando sostanzialmente inalterato lo stock della raccolta totale (depositi+obbligazioni) a circa 1730 mld, come se (semplificando) la liquidità dei disinvestimenti obbligazionari si fosse riversata sui conti deposito. Tuttavia, già tra il 2018 e il 2019 c’è un forte aumento dei depositi, circa 90 mld, ovvero quasi il doppio dell’incremento medio dei 3 anni precedenti, mentre la diminuzione delle obbligazioni è assai modesta, con meno di 5 mld. Già quindi nel 2019 assistiamo ad un forte incremento della liquidità sui conti correnti sicuramente non imputabile ad un deflusso dal segmento obbligazionario. Nel 2020 c’è la vera esplosione dei depositi che, entro dicembre, salgono di oltre 162 mld, anche in questo caso con una modesta riduzione dello stock delle obbligazioni, solo 20 mld. In particolare, come è ovvio, l’accelerazione scatta da aprile in poi, raggiungendo una variazione annua di oltre il 10% a dicembre. Assumendo (ipotesi già forte) che l’incremento dei depositi tra 2018 e 2019 di 90 mld sia fisiologico, la differenza è di oltre 72 mld rispetto all’incremento dell’anno precedente, e di questi, al netto dei 20 mld di deflussi obbligazionari, 52 mld possono essere considerati l’eccesso di risparmio delle famiglie italiane dovute all’effetto della pandemia. Possiamo confrontare questo dato con la perdita stimata del PIL italiano nel 2020, intorno al 9%, che sul PIL totale italiano di 1787 mld nel 2019, porta ad una perdita nel 2020 di circa 160 mld. Considerando che circa il 60% è fatto dai consumi delle famiglie, mancano all’appello oltre 90 mld di consumi, per cui la stima dell’eccesso di risparmio può considerarsi anche in difetto. Piccola notazione di complemento: il debito italiano netto è salito di oltre 150 mld nell’anno, più o meno quello che si è perso in prodotto interno lordo.
Se questi sono i dati, il forte aumento dei depositi sui conti correnti, in ogni caso 90 mld per ciascuno degli anni del biennio 2019-2020 al netto dell’effetto pandemia, a quali fattori può essere attribuito?
- Gli italiani sono storicamente un popolo di risparmiatori ma molto meno un popolo di investitori di lungo periodo. Una larga parte del retail nel passato ha investito al massimo i propri risparmi in obbligazioni bancarie, molto spesso della stessa banca di cui erano correntisti, o in titoli di stato italiani, spesso a breve termine: si parlava, non a caso, di Bot people. La costante riduzione dei tassi d’interesse sulle obbligazioni sia governative sia corporate, a seguito delle politiche monetarie ultra espansive delle banche centrali negli ultimi anni, ha portato a un graduale allontanamento da questi strumenti, riducendo il “costo opportunità” di detenere liquidità su conti (ovvero il rendimento a cui si rinuncia non investendo in obbligazioni).
- Le incertezze di carattere economico e politico che da anni gravano sull’Italia, generando prospettive lavorative sempre più incerte, hanno alimentato un clima di sfiducia e timore, innalzando di conseguenza il risparmio a scopo precauzionale.
- Alcuni eventi di cronaca, recenti e non solo, dai bond Parmalat ai Tango bond, dalla vendita di prodotti non adeguati alla clientela da parte di filiali bancarie più interessate ad esigenze commerciali di budget e meno alla corretta consulenza al risparmiatore fino al fallimento delle banche popolari quali Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e via dicendo, hanno alimentato un clima di ulteriore sfiducia negli investimenti in genere.
- La scarsa cultura finanziaria della popolazione italiana, testimoniata da tante statistiche e sondaggi, rappresenta un ostacolo per favorire la canalizzazione dei risparmi infruttiferi verso forme d’investimento che, non solo possano portare profitto all’investitore, ma anche favorire lo sviluppo economico della stessa nazione in cui il risparmiatore vive e quindi trarre un secondo vantaggio economico e non solo da un tessuto sociale ed economico più prospero.
- I livelli di inflazione contenuti, ma pur sempre positivi negli ultimi anni rispetto al passato (il tasso di inflazione armonizzato in Italia è stato di circa l’ 1,2% nel 2018, lo 0,5% nel 2019 e vicino a 0 nel 2020 ma già mostra segnali di crescita nelle letture preliminari di gennaio 2021) hanno ridotto la percezione di perdita di valore e di poter di acquisto da parte del risparmiatore che, senza accorgersene, lentamente “perde” ricchezza. A questo proposito riporto integralmente un estratto da “Indagine sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani” pubblicata da Centro Einaudi nel 2020: “In dieci anni di mancati investimenti, tra il 2010 e il 2020, il potere d’acquisto della liquidità è sceso dell’11%. Investire in tempi di rendimenti negativi richiede quindi una marcia in più rispetto a quella del risparmiatore italiano medio, che investiva quasi solo in BOT e CCT. Anche quando il rendimento medio obbligazionario di mercato è zero o negativo, altri fattori di esposizione al rischio sono prezzati positivamente dal mercato. Congelare un portafoglio liquido è coerente con un limitato livello d’istruzione finanziaria, ma ignora le opportunità che il mercato finanziario continua a offrire attraverso esposizioni al rischio diversificate, quasi sempre con rendimenti medi positivi, anche quando i tassi base di mercato per gli strumenti senza rischio sono negativi o nulli”.
In uno studio pubblicato da Bank of America dal titolo “Stagnation, stagflation or elevation” nel 2020 si ipotizza che, sotto un certo livello dei tassi di interesse, i consumatori piuttosto che aumentare il livello di spesa, cominciano ad avere un atteggiamento contrario, ovvero riducono le spese e aumentano i livelli di risparmio. Infatti, mentre nel ventennio tra il 1980 e il 2000 ad una riduzione dei tassi di interesse su decennale americano si è associato un graduale aumento della componente del reddito disponibile destinato a maggiori spese, a partire da tassi di interesse inferiori al 4%, tipici del periodo 2000-2020 caratterizzato anche da una forte globalizzazione dell’economia, il consumatore ha speso meno e risparmiato di più. In pratica, sotto certi livelli di tassi di interesse è come se la politica monetaria espansiva portasse meno inflazione piuttosto che più spesa e quindi più inflazione. Una spiegazione di questa evidenza empirica suggerita nel report è che la riduzione di asset a basso rischio capaci di generare reddito (quindi obbligazioni governative ad esempio) costringe le famiglie a risparmiare di più in vista della pensione, al fine di compensare quel mancato flusso di reddito atteso indotto da un minore rendimento sullo stock di risparmio già accumulato. La riduzione dei consumi tuttavia, crea un circolo vizioso: la mancanza di stimolo alla domanda, e quindi alla crescita economica, spinge le autorità di politica monetaria ad abbassare ulteriormente i tassi per creare domanda, secondo un classico approccio di politica monetaria, spingendo però i consumatori ad aumentare ulteriormente i risparmi e ridurre i consumi. C’è da aggiungere un ulteriore elemento legato alle aspettative: continui annunci di riduzione di tassi di interesse mandano un segnale ben preciso di difficoltà economica, segnale che aumenta il livello di insicurezza economica e sociale del consumatore e quindi anche il livello di risparmio precauzionale nel breve termine.
Quali sono i rischi per l’investitore di questo eccesso di risparmio?
Uno dei principali rischi è legato indubbiamente alla possibile ripartenza dell’inflazione. L’investitore, infatti, dovrebbe (anche se spesso non lo fa) sempre fare attenzione al suo rendimento in termini reali, e quindi tenere conto dei livelli di inflazione sia esistenti e prospettici, che possono quindi creare delle perdite di poter di acquisto anche senza aver fatto alcun investimento, che invece servirebbe proprio per evitare che ci siano perdite dal non far nulla. In termini di finanza comportamentale si parlerebbe di status quo bias, ovvero un errore cognitivo che consiste nel preferire la situazione esistente rispetto a possibili altre. Alla base di questa distorsione comportamentale ci sono fattori quali l’avversione al rimorso, i costi di transazione, il coinvolgimento personale, l’avversione al cambiamento e alle perdite a cui viene dato maggior peso rispetto alle possibilità di successo. L’altro rischio è legato al fatto che, evitando qualsiasi forma di investimento, oltre a non recuperare l’inflazione, si perdono anche i possibili guadagni (più o meno grandi in relazione alla propria propensione al rischio) legati ad una corretta pianificazione finanziaria. Infine, il mancato finanziamento di validi progetti di investimento nell’economia reale riduce le possibilità di crescita economica a danno della collettività e quindi anche a danno del singolo risparmiatore che vive in quella collettività.
Quali le possibili soluzioni?
E’ necessario che le autorità incentivino e promuovano sempre più investimenti capaci di incanalare il flusso di risparmio verso investimenti nell’economia reale e non solo speculativi di breve termine. In questo senso si possono inquadrare le recenti emissioni di titoli di stato italiano le cui performance sono anche legate al tasso di crescita del PIL italiano nei prossimi anni (BTP Futura), le emissioni di BTP Green attese nel 2021 per finanziare specificamente progetti ambientali, le agevolazioni fiscali legate agli investimenti nei PIR Alternativi, negli ELTIF e nei fondi pensione che hanno un orizzonte di investimento di lungo periodo. Anche se negli ultimi anni si è assistito a un aumento degli investimenti nel risparmio gestito, è pur vero che molti di questi flussi finiscono all’estero in quanto i fondi di investimento investono a livello globale e l’Italia, anche per il fatto che la sua capitalizzazione borsistica in relazione al PIL è piccola se confrontata con altri paesi, riceve poi solo una piccola parte di queste risorse. Questo è confermato anche da un recente studio del gennaio 2020 di Intermonte SIM in collaborazione con la School of Management del Politecnico di Milano che mostra come, nel periodo 2017-2019, ci sia stato un generale disinvestimento del mondo retail e degli investitori esteri dall’economia reale italiana, con un aumento degli impieghi verso l’estero in cui gli intermediari finanziari hanno giocato un ruolo determinante nel “dirottare” queste risorse. Al di fuori degli strumenti quotati, importante rimane il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti a sostegno dell’economia reale attraverso la sottoscrizione di debito e basket bond cartolarizzati, investimenti nel venture capital, sostegno all’export e via dicendo.
Sul lato educativo è necessario aumentare il livello di cultura finanziaria dell’investitore medio attraverso un valido supporto di consulenza finanziaria e patrimoniale che favorisca la migliore pianificazione finanziaria e allo stesso tempo fornisca risorse per lo sviluppo del nostro paese. Vedremo nei prossimi mesi se il nuovo premier Draghi sarà in grado di fornire ulteriori strumenti che possano favorire il cammino in questa direzione sia per i risparmiatori che per gli stessi consulenti finanziari.
Per ulteriori info visita il mio sito personale: www.amconsulentefin.it
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