Il futuro delle banche, evolversi per sopravvivere
L’articolo fa parte di un lungo dossier “Stargate, investire sul futuro” pubblicato sul numero di febbraio del magazine Wall Street Italia.
di Angelo Deiana
È un periodo complesso, quello attuale, per le banche: erosione del margine finanziario, rimodulazione del margine da servizi, rapporti cost/income spesso insostenibili, necessità di investimenti tecnologici per stare al passo dei processi espansivi di Fintech e BigTech. A tutto ciò, si è aggiunta l’instabilità economica generata dalla pandemia da Covid-19. In sintesi, l’unica certezza è che non ci sono certezze. Viviamo in un mondo nuovo: Marx aveva predetto che quando i tassi sarebbero scesi a zero il capitalismo sarebbe morto.
Ora i tassi sono negativi, il capitalismo non è morto ma il problema è lo stesso per tutti: dove trovare un mix virtuoso fra rischio e rendimento che offra un orizzonte di valore per clienti e azionisti? Altrimenti la redditività del capitale diventerà un’araba fenice per molti player, e questo potrebbe determinare la fine del sistema bancario come lo abbiamo conosciuto finora. Ecco perché, se il capitalismo del passato non offre più rendimenti a causa della mutazione dei parametri strategici di contesto, è necessario provare a immaginare qualcosa di nuovo.
Banche: gli scenari evolutivi
Anche a causa della pandemia, la digitalizzazione è in forte accelerazione e gestisce masse straordinarie di dati che si vanno a incrociare con persone e comportamenti, creando una nuova domanda di servizi che non si sottrae ma si aggiunge a quella già esistente. Per questo motivo gli ostacoli generati dagli impatti del Fintech sono importanti, al di là della resistenza generica delle banche più tradizionali. Gli scenari evolutivi che si possono tracciare sono diversi, anche se nessuno ha le caratteristiche del trend killer:
- la scomparsa delle banche tradizionali più piccole (in corso);
un periodo di fusioni e acquisizioni fra soggetti di grandi dimensioni (in corso);
lo sviluppo di hybrid/challenger banks con prodotti/servizi innovativi (in corso);
partnership tra banche e società fintech oppure tra banche e Big Tech, la cosiddetta Fintegration (solo ai primi passi);
crescita di player Fintech in segmenti di nicchia con servizi ad alto valore aggiunto e dall’elevato ritorno economico (ai primi passi).
È una trasformazione che sta lavorando ai fianchi le grandi banche, che comunque avranno il potere di assorbire (comprandole) parte delle fintech e delle banche digitali.
Sono invece le banche medio-piccole a essere più esposte. Davanti a loro ci sono solo due vie d’uscita: iper-territorializzarsi in enclave quasi chiuse di relazioni simil/pseudo familiari; eliminare quasi completamente i rischi del credito, affidando la funzione (e il relativo back-office) a partner esterni specializzati in termini di efficacia ed efficienza.
Altre strade sono difficili in un mondo a rete che si sta “amazonificando”, e che vede il minor tempo di servizio come fattore di scelta strategica della clientela. Ecco allora il dilemma che costituisce il campo di battaglia della redditività futura di tutto il settore bancario: andare verso il digitale e sfidare il mondo nuovo delle fintech a ricavi altrettanto digitali, oppure gestire l’attuale (ma effimero) vantaggio competitivo del sistema tradizionale?
Non sarà un processo facile per le complesse strutture organizzative delle banche tradizionali. I vincoli posti dalle infrastrutture tecnologiche esistenti e dalla cultura focalizzata sul prodotto stanno facendo emergere una lentezza evolutiva che renderà il riposizionamento competitivo sul sistema digitale particolarmente faticoso.
Si tratta di metabolizzare un paradigma nuovo: la digital/platform economy è un sistema in cui il problema non è quello di una mera digitalizzazione dei sistemi produttivi e distributivi, ma una transizione phygital verso un modello consulenziale comportamentale dove la tecnologia è il braccio, i soft skills la mente, e i dati il vantaggio competitivo.
Senza dimenticare che il sistema bancario e finanziario italiano è agitato da processi di aggregazione come quello Intesa/Ubi. Ma a prescindere dalle operazioni straordinarie, PwC ricorda che l’industria bancaria aveva già dato luogo negli ultimi anni a processi di ottimizzazione organizzativa attraverso la razionalizzazione delle filiali (-9.300 unità tra 2010 e 2019) e del numero di dipendenti (-46.000 unità nello stesso periodo). In quegli stessi anni era peraltro migliorata la solidità patrimoniale (Cet1 ratio al 13,9% a fine 2019) e l’Npl ratio, sceso al 6,7% a fine 2019 dal picco del 16,8% del 2015. Quest’ultimo coefficiente subirà impatti importanti dalla crisi Covid, ma era in netto miglioramento.
Detto questo, anche prima della pandemia esistevano importanti segnali di debolezza: difficoltà del sistema a rimanere sopra soglie accettabili di profitto (Rote 2019 medio inferiore all’8%);multipli di Borsa fortemente penalizzanti rispetto al book value;bassi tassi di interesse e dunque margine finanziario solo residuale;reti di distribuzione fisica da modernizzare rapidamente in senso phygital;forte pressione da parte delle challenger banks e degli impatti globali delle BigTech: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.
La strade della Fintegration
A fronte di questi punti di debolezza, l’unico possibile salto in avanti strategico non può che essere la Fintegration, l’integrazione a tappeto di tecnologie emergenti (cloud, blockchain, intelligenza artificiale, robo-advisory) come fattori abilitanti nel percorso di trasformazione verso il phygital.
D’altra parte, il ruolo della tecnologia è sempre più centrale nel mondo finanziario, tanto che banche globali come J.P. Morgan Chase si definiscono ormai aziende tecnologiche.
Un salto di paradigma epocale simile a quello di Goldman Sachs, il tempio del private banking, che ormai consente di aprire conti online anche solo con un dollaro. Uno scenario senza alternative. La data-driven economy, la “datocrazia” ha trasformato per sempre il mondo delle banche.
Il valore sta nei dati
Senza poi dimenticare che ai grandi del Big Tech i Big Data non bastano più. Ecco il motivo principale con cui gli analisti più attenti ai processi evolutivi spiegano la ormai costante attenzione delle grandi piattaforme per licenze bancarie, sistemi di pagamenti, criptovalute e transazioni finanziarie. L’obiettivo strategico dei Gafam non è (almeno per il momento) quello di “fare banca” a rendimenti economici visto che, essendo il loro mondo digitale e fintech, anche i margini sono digitali.
Il vero orizzonte che le Big Tech perseguono è quello di trasformare i loro Big Data in Better Data attraverso l’incrocio strutturale dei dati comportamentali con i dati patrimoniali e reddituali provenienti dalle attività finanziarie che, in questo momento, sono segregati nelle banche in nome della privacy.
La domanda successiva è: in questo scenario, chi governa veramente il mondo finanziario se azioni, obbligazioni ed Etf vengono gestiti da algoritmi informati e allenati dall’incrocio tra dati comportamentali e reddituali del sistema? Quali sono i meccanismi di disaster recovery se si dovessero verificare una serie di flash crash prodotti da ondate di vendite o acquisti basati su fake news o attacchi cibernetici provenienti, anche involontariamente, dal sistema social?
Ecco perché bisogna essere veramente pragmatici.
La sintesi è una sola: per il sistema bancario l’orizzonte è incerto ma la strada da percorrere è tracciata. Evolversi e “fintegrarsi” per sopravvivere. Altrimenti sarà la fine.