Il piano di rilancio dell’economia Usa da parte dell’amministrazione Biden, per un importo di 1.900 miliardi di dollari, ha fortemente contribuito a far risalire i premi d’inflazione. Nel cuore dell’universo democratico, la dissonanza di Larry Summers, ex ministro delle Finanze di Bill Clinton e professore a Harvard, riguardo al rischio inflazionistico di questo piano (criticato da altri economisti come Paul Krugman), ricorda quanto la sperimentazione in corso sia inedita, tenuto conto dell’entità delle somme in gioco, e contenga incognite.
L’amministrazione Biden cerca di sfruttare il proprio capitale politico per imporre altri grandi piani. Quello sulle infrastrutture mostra ancora contorni e una probabilità di realizzazioni non ben definiti. Questi due parametri sono stati rivisti al rialzo negli ultimi giorni. Il target sarebbe ormai di 3.000 miliardi di dollari per le infrastrutture su un orizzonte di 10 anni. Alcuni articoli parlano di divisioni superabili all’interno dei Democratici, mentre una manciata di Repubblicani potrebbe anche lasciarsi tentare da un compromesso. Grandi manovre sono in corso per forzare il destino di questo progetto, che fino a poco tempo fa era ancora ipotetico. L’importo totale dei piani di rilancio messi in atto da Biden potrebbe quindi avvicinarsi al 25% del PIL americano su diversi anni (escludendo l’effetto recessivo degli aumenti delle imposte), una cosa mai vista!
Tensioni sull’inflazione
Supponendo che gli investitori prendano atto delle possibilità di approvazione di questo piano, ci sarebbero tutti gli elementi propizi a delle aspettative d’inflazione volatili: proseguimento di un quantitative easing aggressivo (sebbene giustificato più dai mercati o dall’economia), prospettive di un rilancio estremamente forte e duraturo negli Stati Uniti.
A più breve termine, l’inflazione potrebbe essere più elevata (impennata del prezzo del trasporto, carenza di componenti come semiconduttori, materiali da costruzione ecc.). Sia a livello quantitativo (indagini PMI), sia delle dichiarazioni degli imprenditori, oggi si riscontra una maggiore preoccupazione per i costi di produzione.
Un ritorno della volatilità delle previsioni d’inflazione sarebbe negativo in quanto percepito come il limite dell’esercizio al quale si sta dedicando attualmente la Fed. Visto il ruolo eccezionale svolto dalla Fed nel rimbalzo dei mercati da un anno questa parte, è importante che essa possa uscire da questa politica monetaria estremamente lassista al suo ritmo, e non accelerando sotto la pressione degli ultimi sviluppi.
Impennata della volatilità?
A forzare troppo la reflazione si corre quindi il rischio di far muovere le placche tettoniche dello scenario macroeconomico del mercato.
Gli investitori integrano sempre più lo scenario perfetto e gli indicatori di posizionamento sui mercati azionari sono ormai elevati, evidenziando una fragilità latente in caso di rischio inatteso.
In un contesto che resta molto chiaramente positivo per gli attivi rischiosi, l’accesso alla volatilità diventa del tutto possibile. Per questo riduciamo tatticamente il peso delle nostre esposizioni in azioni e sui titoli di Stato, al fine di aumentare la liquidità, il tempo di vedere se e come verrà attuato questo molto ambizioso piano sulle infrastrutture, e come si assestano le stime d’inflazione.
La netta sottoponderazione nei titoli di Stato non traduce, da parte nostra, un’anticipazione di una vigorosa risalita dei tassi a lungo termine, ma una gestione del rischio globale del portafoglio. In un momento in cui il rischio di revisione al rialzo delle previsioni d’inflazione può potenzialmente avere un impatto su tutte le classi di attivi, preferiamo concentrare l’essenziale del rischio sulle azioni e alcune sotto-classi di attivi obbligazionari e non avere un’esposizione ad attivi sempre poco remunerativi ma molto esposti a questo rischio.