Possedere azioni legate al petrolio non è certo popolare – o addirittura accettabile – di questi tempi, per ovvie ragioni ambientali. Né è stato particolarmente remunerativo negli ultimi anni. E se le ottime performance del settore nel 2021 fossero più di un semplice riflesso del rimbalzo post-pandemia del prezzo del greggio e l’impact investing fosse un’opzione migliore del disinvestimento?
Le pressioni sulle grandi compagnie petrolifere provengono da molti fronti: i governi (ora compresa l’amministrazione USA) con il loro obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050, gli attivisti ambientali, i fondi pensione, il grande pubblico e persino i tribunali. L’attacco alle Big Oil è certamente una scelta semplice e popolare – ma non necessariamente il modo migliore per salvare il nostro pianeta.
Non fraintendeteci. Naturalmente, l’abbandono dei combustibili fossili è vitale per il pianeta, ma è una transizione che durerà diversi anni – e richiederà anche significativi cambiamenti nei modelli di consumo. Nel frattempo, la domanda di petrolio rimarrà e vi sono molti grandi produttori non quotati, spesso attivi in Paesi dove il cambiamento climatico e gli aspetti ESG hanno un peso molto minore, che la soddisferanno prontamente.
Anche per quanto riguarda le società quotate , limitarsi a liquidare le loro azioni significa metterle nelle mani di altri investitori, forse meno ben intenzionati. È vero, renderebbe più difficile per le grandi compagnie petrolifere ottenere nuovi finanziamenti sui mercati azionari e potrebbe anche aumentare il costo del debito, ma quanto valgono questi ragionamenti data la quantità di denaro che generano?
Bisogna anche riconoscere gli sforzi fatti dalle società energetiche per limitare il loro impatto ambientale, sia diretti (eliminazione delle proprie emissioni di gas serra), che indiretti (riduzione della concentrazione di carbone nei combustibili fossili che producono). Forse, e solo forse, le Big Oil possono essere parte della soluzione.
Ciò sembra particolarmente vero in Europa, dove i produttori stanno destinando grandi somme di denaro alle fonti di energia alternativa (eolica e solare) nonché ad opportunità emergenti come la cattura del carbonio o l’idrogeno verde.
Royal Dutch Shell, Total (ora TotalEnergies), BP ed Equinor sono oggi tutte allineate all’obiettivo zero emissioni nel 2050. Aker BP, una piccola azienda indipendente di esplorazione e produzione attiva sulla piattaforma continentale norvegese, è senza dubbio ancora più avanzata nella transizione, con un livello di emissioni pari a meno di un terzo dell’industria globale. Infatti, come valido esempio di come le società energetiche possono applicare le loro competenze tradizionali a nuove aree, Aker ha appena unito le forze con BP e Statkraft per sviluppare l’energia eolica offshore nel Mare del Nord.
Le controparti americane, Exxon Mobil e Chevron in particolare, sono indubbiamente più indietro. Pur avendo anch’esse annunciato piani per ridurre le loro emissioni di CO2, nessuna delle due ha preso l’impegno di raggiungere lo zero netto.
Né hanno dichiarato di partecipare a progetti solari o eolici su larga scala. Exxon è stata oggetto di particolare attenzione: è stata esclusa l’anno scorso dal potente indice Dow Jones – di cui era membro dal 1928! – e recentemente ha affrontato una riunione annuale impegnativa, in cui il fondo d’investimento attivista Engine No. 1, sostenuto da alcuni grandi stakeholder (insoddisfatti dei risultati finanziari della società), ha imposto due nuovi amministratori nel board.
Tuttavia, vi sono altre aziende statunitensi più coinvolte nella necessaria transizione energetica, ad esempio Occidental Petroleum nel campo della cattura del carbonio.
In definitiva, gli investitori che scelgono semplicemente di ignorare il settore petrolifero possono essere colpevoli di un grave errore di valutazione. Restando coinvolti, gli azionisti hanno più peso e potere per guidare concretamente il cambiamento. E potrebbero anche trovarlo finanziariamente premiante…