Inflazione, il peggio deve ancora venire?
di Massimo Intropido
I dati sull‘inflazione diffusi la scorsa settimana in vari paesi del mondo e iniziano ad essere preoccupanti. Negli Stati Uniti i prezzi alla produzione ad ottobre sono cresciuti dello 0,6% su base mensile, ma di ben l’8,6% su base annua, vale a dire il massimo degli ultimi 11 anni.
I settori più caldi sono sempre quelli dei trasporti, con la benzina che aumentata del 6,7%, e le auto e i loro ricambi in crescita dell’8,9%. Ma il dato peggiore arriva dai prezzi al consumo, che mostra la maggior crescita dal novembre del 1990, e passa infatti dal 5,4 al 6,2% su base annua in ottobre. Impressionante l’aumento dei costi dell’energia, che arriva al 30% dopo che a settembre erano già saliti del 24,8%. L’incremento della benzina arriva al 49,6%. Case e affitti vedono i loro prezzi incrementarsi del 3,5%, gli alimentari salgono del 5,3% (il massimo da gennaio 2009), le auto nuove balzano del 9,8% e quelle usate addirittura del 26,4%. I trasporti si fermano a +4,5% e l’abbigliamento al +4,3%.
Altrettanto preoccupante l‘inflazione cinese, perché da quelle parti i prezzi alla produzione sono cresciuti del 13,5% su base annua in ottobre, il massimo incremento dal luglio 1995. In questo caso il balzo è provocato non solo dall’aumento dei costi dell’energia, ma anche dalla sua scarsità, soprattutto da quella del carbone. I prezzi dei macchinari passano da +14,2% di settembre a +17,9%.
I costi di estrazione delle materie prime segnano un’incredibile +66,5% rispetto all’altrettanto preoccupante +49,4% di settembre. I materiali grezzi volano a +25,7% dopo il +20,4% precedente. I costi industriali di trasformazione crescono del 10,8% dopo un + 8,9% di settembre.
Sono soprattutto le voci industriali quelle che preoccupano di più, dal momento che molti dei beni che vengono venduti finiti negli Stati Uniti e in Europa, iniziano il loro processo produttivo proprio in Cina. È qui che sta nascendo l’ulteriore balzo dell’inflazione che probabilmente investirà l’Occidente, ma intanto si è già riversata sul Giappone, dove i prezzi alla produzione a settembre sono aumentati dell’8%, il massimo degli ultimi quarant’anni. Anche qui è davvero pericoloso l’aumento di petrolio e carbone, cresciuti del 44,5% dopo già un + 32,4% in agosto. Preoccupante anche l’andamento del ferro e dell’acciaio (+21,8% dopo il +18,1% di un mese fa) e dei metalli non ferrosi (+31,4% dopo un +27%). Male anche la chimica (+14,1% da +12,7%). Al di fuori dei materiali e dell’energia, l’andamento dei prezzi per il momento non genera allarmi particolari perché l’elettronica cresce del 2%, i macchinari da produzione dello 0,4% e quelli elettrici dello 0,8%.
A sorpresa è ancora alta la crescita dei cibi e bevande (+2,3% dopo il +2,9% di agosto). Tutti questi dati ci dicono che nei settori industriali primarie la pressione inflazionistica sta peggiorando e non sembra essere affatto temporanea.
Anzi, questo balzo dei costi rischia di trasmettersi anche agli altri comparti dell’economia, anche se la Federal Reserve americana e la Banca Centrale Europea insistono nel dire che durerà poco. È vero che tutto su questo pianeta è temporaneo, ma la sensazione è che i banchieri centrali non vogliano aumentare troppo in fretta i tassi di interesse per almeno due buoni motivi.
Il primo è il timore di rallentare la ripresa economica, che questa volta si baserà su una quantità di prestiti e sussidi senza precedenti nella storia. Aumentare il costo del denaro significherebbe ridurne il potenziale, perché aumenterebbe il costo di realizzazione di tutti i progetti infrastrutturali e si scoraggerebbe l’utilizzo del credito, che negli Stati Uniti rappresenta lo zoccolo duro dei consumi.
La seconda ragione, che non si può ammettere pubblicamente ma che di sicuro viene valutata nei vari consigli direttivi delle banche centrali è il fatto che l’inflazione svaluta il debito e tutti sanno che uno degli interrogativi del mondo post Covid è proprio la sostenibilità del debito mondiale, soprattutto dell’ingente fetta che è stata aggiunta negli ultimi due anni. La crisi del settore edilizio in Cina ne è la testimonianza più palese, perché oltretutto è scoppiata all’interno di una delle economie che sono cresciute maggiormente negli ultimi decenni. Se inflazione erode un po’ di debito e lo aiuta a tornare sotto controllo, tutto sommato non è un male. Certo non si può dire, ma sono cose che si fanno.
Ecco perché per combattere l’inflazione si sta prendendo la strada lunga, ovvero prima si riducono gli acquisti di titoli sui mercati, anche per verificare se senza aiuti il mercato obbligazionario possa crollare in virtù della ricerca di rendimenti più elevati da parte degli investitori.
Poi, quando gli acquisti di emergenza saranno azzerati, arriveranno i primi timidi aumenti dei tassi d’interesse, ma saranno aumenti molto contenuti, dello 0,25%, massimo dello 0,50%, ogni volta. Ma questo non è combattere l’inflazione. Questo è fare il minimo necessario. Per contrastare l’aumento dei prezzi commerciali bisognerebbe invece aumentare subito i tassi di interesse e continuare ancora per un po’ gli acquisti di titoli. In questo modo si aiuterebbero i mercati obbligazionari a smaltire la valanga di vendite che inevitabilmente il ritocco dei tassi scatenerebbe. In altre parole si piloterebbe l’economia verso un regime di denaro non più a buon mercato, evitando incidenti di percorso. I banchieri lo sanno, ma preferiscono non farlo.
E attenzione, perché dietro l’inflazione ci sono anche i comportamenti speculativi da parte dei grossisti di materiali. Se io so che il prossimo ordine mi costerà di più, compro tutto il possibile intanto che è disponibile a prezzi più bassi, anche a costo di affittare nuovi magazzini e di utilizzare pesantemente il fido bancario. Chiaramente si tratta di un esempio grossolano, ma è più o meno così che il sistema funziona. Ecco perché se si volesse veramente contrastare l’inflazione si dovrebbe agire subito sui tassi d’interesse, proprio per colpire i comportamenti orientati all’incetta di materie prime che ormai sono all’ordine del giorno.
Tra l’altro l’inflazione sta già indebolendo anche i piani di riduzione di emissioni di CO2. La transazione ad una nuova struttura energetica già di per sé comporta costi enormi, perché gli impianti hanno dimensioni enormi che richiedono grossi investimenti. Se poi aumentano del 50% i prezzi dei materiali con cui bisogna costruire queste nuove centrali “pulite”, ciò che accade è che i paesi più dipendenti dell’energia “sporca” allunghino le scadenze della loro conversione al Green e i paesi più ricchi guardano dall’altra parte, cioè accettano questi accordi così laschi da essere quasi inesistenti. È proprio quello che è accaduto alla Cop26.
L’inflazione è come un croupier che rimescola le carte nell’economia, nelle politiche di investimento pubblico e privato, nella spesa di tutti i giorni e nel risparmio. Il problema è che il gioco potrebbe essere solo all’inizio.