La Federal Reserve (Fed) ha finalmente riconosciuto che l’inflazione elevata non è transitoria, ma potrebbe esserlo la sua ferma intenzione di combatterla, secondo i mercati. La Fed si è finalmente decisa a riconoscere che abbiamo un problema da risolvere con l’inflazione.
Già nel numero di giugno, quando l’inflazione del Consumer Price Index (CPI) statunitense aveva superato il 5%, avevo ricordato che i notevoli aumenti dei prezzi non erano circoscritti a poche eccezioni, ma si erano invece diffusi a varie categorie di beni e di servizi. Da allora, è diventato ancora più chiaro che le pressioni dell’inflazione sono ad ampio raggio e non dovute solo a effetti di base: il Core CPI a ottobre è arrivato al 4,6% a/a e per cinque mesi consecutivi non è mai sceso sotto il 4%.
Anche altri parametri di misura dell’inflazione, ad esempio il Cyclical Core PCE della Fed di San Francisco e l’Underlying Inflation Gauge della Fed di New York sono saliti drasticamente. L’inflazione headline è balzata a un massimo del 6,2% a/a, il valore più alto da 31 anni a questa parte.
Più di un anno fa, noi di Franklin Templeton Fixed Income eravamo già un’eccezione, prevedendo un’inflazione notevolmente superiore al consensus.
Quattro mesi fa, avevo già segnalato il rischio che i mercati e i responsabili della politica potessero stare ancora sottovalutando l’inflazione, e avevo indicato due fattori: la probabilità che un’inflazione elevata dimostrasse un’inerzia notevole, e la dicotomia tra consumatori e aziende, che prevedevano un persistere dell’inflazione, e gli investitori finanziari che sembravano quasi tutti convinti del contrario.
L’inerzia dell’inflazione è ora chiaramente visibile.
Supponiamo che l’inflazione a novembre scenda nuovamente allo 0,2% m/m (la media per il 2017–2019) e resti a tale livello.
L’inflazione a/a resterà comunque superiore al 6% fino a febbraio prossimo, e intorno a una media del 5,5% nei 12 mesi fino a tutto maggio 2022.
E questo scenario sembra attualmente il caso migliore in assoluto, poiché l’inflazione m/m è stata in media dello 0,6% dall’inizio dell’anno.
Supponiamo che l’inflazione m/m resti allo 0,6% ancora per qualche tempo, diciamo altri sei mesi: non dimentichiamo che è stata già mediamente intorno allo 0,6% negli ultimi 10 mesi.
In quel caso, l’inflazione a/a salirebbe oltre il 7% a dicembre, impennandosi quasi all’8% a febbraio/marzo, per poi scendere a meno del 5% solo tra un anno a partire da adesso.
Inoltre, l’inflazione resterebbe in media intorno al 5,4% per due anni interi, 2021-2022.
Quanto più a lungo l’inflazione resta nella fascia tra 5% e 6%, tanto più comporta un cambiamento del comportamento e delle aspettative dei consumatori e dei produttori.
L’evidenza aneddotica è sempre più chiara: le società si stanno abituando a dover pagare prezzi di input più elevati e ad alzare i prezzi dei loro prodotti; è un cambiamento di regime come non avveniva da molti anni.
I lavoratori stanno negoziando aumenti delle retribuzioni, mentre la disponibilità di addetti continua ad essere insufficiente rispetto alla domanda.
A metà dell’anno prossimo, questi cambiamenti comportamentali si saranno integrati ancora più saldamente.
Il presidente della Fed Jerome Powell ha finalmente riconosciuto che è arrivato il momento di eliminare l’aggettivo “transitorio”.
Dapprima in un recente discorso, e poi in una dichiarazione al Congresso, ha ammesso che “transitorio” può essere interpretato in modo diverso da persone diverse.
Ha ragione. Si tratta di qualche mese? Si tratta di qualche trimestre? Si tratta di qualche anno?
Powell ha affermato che per la Fed significa che “non porterà a un’inflazione più elevata permanente o molto persistente”.
Bene, nella vita niente è permanente, e anche “molto persistente” è una definizione piuttosto ambigua.
Potrebbe trattarsi di un’inflazione superiore al 5% per un anno?
Perché questo appare già un esito confacente al caso migliore in assoluto, come ho ricordato prima.
In un recente seminario, Powell ha anche ammesso che l’approccio “paziente” della Fed potrebbe non essere la soluzione perfetta per un contesto di colli di bottiglia sostenuti dell’offerta e aumenti dei prezzi dell’energia, e per la prima volta è apparso più preoccupato per l’inflazione che per la disoccupazione.
I mercati l’hanno percepito e l’umore è diventato più nervoso; il breakeven rate a cinque anni è salito decisamente oltre il 3%.
Sono poi arrivate le notizie relative alla variante Omicron del COVID-19, e i mercati hanno rapidamente rivisto al ribasso le aspettative di irrigidimento della Fed.
C’è chi l’ha vissuto come una ripetizione del 2018, quando Powell aveva segnalato un’impostazione monetaria più rigida, nei mercati subentrò una recessione e la Fed non rimase indifferente.
Tuttavia, vi è una differenza importante.
Nel 2018, l’inflazione si muoveva in una fascia tra il 2% e il 3%; oggi ha superato il 6% e promette di restare ancora per qualche tempo tra il 5% e il 6%, come ho affermato prima.
Vari paesi sono tornati a imporre certe restrizioni correlate al COVID in via cautelativa, ma a questo punto non abbiamo alcuna prova concreta che la variante Omicron possa nuovamente far crollare l’economia globale in lockdown su vasta scala.
I mercati sembrano scommettere che la Fed vorrà prendere le proprie precauzioni e mantenere il supporto monetario in atto, come garanzia contro i rischi di downside per la crescita.
Dopo tutto, è quello che la Fed ha promesso e fatto per buona parte dell’ultimo decennio, quando mentre i rischi di inflazione erano costantemente bassi si è concentrata sui rischi della crescita.
Questa volta, tuttavia, l’inflazione non è un rischio, è una realtà: un problema chiaro e presente.
E se la Fed rimanda l’irrigidimento, non farà che peggiorare.
Se la Fed non passa a un irrigidimento con l’inflazione tra il 5% e il 6%, è probabile che le aspettative si disancoreranno ancora di più. Altrettanto importante è il fatto che attualmente l’inflazione è diventata un serio problema politico per l’amministrazione Biden.
Quanto più a lungo aumentano i prezzi per i consumatori, tanto più cresce la loro insoddisfazione per la situazione dell’economia.
Ciò si traduce in un calo di popolarità dell’amministrazione e un aumento della pressione politica per riportare l’inflazione sotto controllo; e questa pressione contagia anche la Fed.
A causa di queste importanti differenze rispetto al 2018, non credo che il forte rally recente nei mercati obbligazionari possa dimostrarsi sostenibile.
A meno che non sopravvenga concretamente una nuova recessione globale, provocata dalla variante Omicron o da qualsiasi altro shock imprevisto, il mercato obbligazionario sta probabilmente sottovalutando il problema dell’inflazione, e sottovalutando le restrizioni a cui deve far fronte attualmente la Fed.