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(WSI) – «La performance delle società a larga capitalizzazione – argomenta Nick Nelson di Ubs – è stata largamente inferiore a quella delle small cap nel 2006. E si tratta di una tendenza che prosegue ormai da sette anni. Io credo che il 2007 sarà l’anno della svolta – aggiunge – l’anno in cui in capo ai titani del mercato».
Quando Nelson dice che la performance dei pesi massimi dei listini è stata deludente, certamente non esagera. Infatti, nel 2006, le prime 10 società dell’indice Dj EuroStoxx50 hanno portato a casa un apprezzamento medio di appena l’1 per cento. Al contrario le small cap, cioè le società a minor capitalizzazione, hanno registrato un guadagno del 31,2 per cento. Bisogna tornare al 1999 per ritrovare al vertice della performance continentale nomi di big del calibro di Deutsche Telekom, France Telecom, Mannesmann o Siemens.
Il cattivo andamento in Borsa è all’origine di un fenomeno curioso: le compagnie maggiori si sono talmente deprezzate in termini relativi, che oggi passano di mano con un forte sconto se confrontate con le loro cugine a bassa capitalizzazione. In particolare – a quanto risulta dai calcoli di Nelson – si tratta dell’abbuono più ampio degli ultimi quindici anni. L’esperto di Ubs non è il solo a puntare su una possibile riscossa dei giganti europei. «Noi pensiamo che, ai prezzi attuali, le grosse multinazionali offrano un ottimo profilo di rischio-rendimento», gli fa eco Edmund Ng di Morgan Stanley .
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SMALL A TUTTO M&A. La situazione risulta evidente andando ad analizzare alcuni dati sulle prime 40 compagnie dell’indice Msci Europe. Il loro dividendo è pari al 3,8% e vengono scambiate ad appena 12,3 volte gli utili previsti per il 2007. Insomma, si tratta di valutazioni tutto sommato modeste e, soprattutto, inferiori del 25% circa rispetto al prezzo delle aziende di medie dimensioni. Di fronte a questi numeri c’è da domandarsi perché la divergenza sia stata così ampia.
«Io credo – dice Robert Buckland di Citigroup – che la causa sia da ricercare nella corsa dell’M&A che ha caratterizzato lo slancio delle piazze azionarie. Nel 2006, circa il 4% delle compagnie a piccola e media capitalizzazione sono state oggetto di scalate o di compravendite incrociate. Ciò ha ovviamente spinto in alto i prezzi. Le aziende a maggiore capitalizzazione, con un valore spesso superiore ai 50 miliardi di euro, semplicemente erano troppo grandi per questo tipo di manovre e perciò sono rimaste sottovalutate». Gli analisti spiegano pure la differenza con i tempi della bolla finanziaria riconducibile al 1999-2000, quando le multinazionali trainavano i listini al rialzo.
Allora c’era un forte afflusso di denaro nei fondi comuni da parte delle famiglie e dei risparmiatori tradizionali. I gestori, a loro volta, riversavano il denaro sui titoli maggiori per una semplice ragione di stazza. Ma negli ultimi anni le famiglie sono rimaste alla finestra. I fondi comuni non hanno denaro fresco e non sono in grado di muovere il mercato. I protagonisti vanno cercati altrove: nel private equity, che ha raccolto in un paio d’anni la bellezza di 500 miliardi di dollari e che si è specializzato nei titoli medi e piccoli. E nelle stesse aziende, che hanno concentrato le operazioni di fusione e acquisizione in segmenti dei listini azionari tradizionalmente poco sotto i riflettori. È vero che, piano piano, le operazioni iniziano a coinvolgere aziende di stazza superiore, però rimangono tuttora esclusi i veri e propri colossi, insomma le compagnie da 50 miliardi di capitalizzazione in su. Con l’unica eccezione del merger tra Intesa e Sanpaolo: la capitalizzazione stimata del nuovo istituto è superiore ai 70 miliardi di euro.
I BIG CORRERANNO DI PIÙ. Ecco perché, secondo Buckland, «conviene scommettere sulle grandi società, ma non sulle megasocietà. Diversamente, si rischia seriamente di rimanere esclusi dal principale fattore di crescita delle quotazioni azionarie, ossia la corsa alle fusioni e alle acquisizioni». Le società grandissime, invece, potrebbero essere adatte agli investitori più orientati al lungo termine. Al limite disposti ad accettare un 2007 sotto tono in cambio della sicurezza di avere in mano titoli dal bilancio solido, da ricchi dividendi, da multipli bassi e che, probabilmente, daranno soddisfazione da qui a qualche anno.
Vi è, per concludere, un altro fattore da tenere a mente. Il ritmo di espansione dei profitti potrebbe subire una leggera decelerazione nel 2007, e ciò di solito favorisce le blue chip. Secondo Ian Scott di Lehman Brothers, «se guardiamo a Wall Street, le compagnie a larga capitalizzazione hanno battuto le small cap in sei casi su otto dopo che il ciclo dei profitti aveva superato il picco. Mi riferisco qui a una statistica che risale al 1926». In America, anzi, le big del listino hanno già preso a correre più delle piccole. Cosa che in Europa potrebbe accadere a breve pure secondo Kevin Gardiner di Hsbc. «Il persistente ritardo delle società a larga capitalizzazione – chiarisce – ha portato le valutazioni a livelli estremamente appetibili.
Ci sono già segni di inversione negli Stati Uniti e in Giappone, che lasciano presagire un’analoga inversione anche in Europa. Non meno importante è il carattere difensivo di questi titoli, che consente all’investitore di navigare con maggiore stabilità quando le acque si fanno turbolente. Infine conterà pure la febbre delle fusioni, ma non coinvolgerà i primi 10 titoli della Borsa continentale».
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